Se il governo Draghi doveva essere un tempo concesso ai partiti per riorganizzarsi, le cose non stanno affatto andando per il verso giusto. Destra e sinistra stanno facendo una fatica enorme, e sembrano ancora impantanate. Emblematico il caso delle primarie del centrosinistra, a Roma e a Bologna, dove il nome del vincitore non contava assolutamente nulla, l’unico dato rilevante era sapere se i gazebo sarebbero stati disertati, come avvenuto una settimana fa a Torino, oppure no.



Qui il Covid non c’entra. Si tratta della crisi evidente di uno strumento di partecipazione. I dem possono tirare un mezzo sospiro di sollievo, constatando che la chiamata alla armi ha (moderatamente) funzionato, il flop scongiurato. Ma le ragioni di soddisfazione finiscono lì. Nella capitale hanno votato in 45mila, più o meno la stessa cifra delle sfortunate primarie che incoronarono Roberto Giachetti sfidante di Virginia Raggi nel 2016, anni luce distanti dai 100mila partecipanti al voto che lanciò Ignazio Marino verso il Campidoglio. Vince Roberto Gualtieri con oltre il 60%, talmente sponsorizzato dall’apparato che il materiale pubblicitario del Pd diceva senza tanti giri di parole “andiamo a votare alle primarie, e votiamo Gualtieri”. Gli altri sei contendenti sono stati ridotti al ruolo di comparse per legittimare il candidato ufficiale, con buona pace delle regole base della democrazia. Nonostante questo imbarazzante traino, lo sfidante più agguerrito, Giovanni Caudo – che contesta anche i dati dell’affluenza: per lui non superano i 37mila – arriva al 15,1%, e si dice che Calenda potrebbe offrirgli di correre in ticket.



Tanti militanti storici hanno disertato un voto troppo scontato per essere sentito come vero, non Massimo D’Alema che si è disciplinatamente messo in fila al gazebo di Piazza Mazzini. Enrico Letta si accontenta: si ostina a vedere il bicchiere mezzo pieno, e parla della conferma dell’esistenza del popolo di centrosinistra.

Anche a Bologna tutto scritto e scontato (vittoria del candidato ufficiale Matteo Lepore sulla renziana Isabella Conti), ma discreta affluenza ai gazebo, oltre 20mila persone. Il giorno dopo i problemi del Pd rimangono intatti: sbandamento a sinistra di Letta e difficoltà enormi a consolidare l’asse con i 5 Stelle, con Conte che fatica a prenderne le redini, e sembra a momenti voler recitare la parte dell’anti Draghi. Un approccio che i dem proprio non possono permettersi.



Non meno difficoltà si registrano nel campo del centrodestra, in cui la costante crescita nei sondaggi della Meloni, che sfrutta al meglio la rendita dell’opposizione solitaria a Draghi, mette ansia a Salvini e Berlusconi, che si sono ritrovati ieri sera a cena. Il leader della Lega continua a proporre una federazione, quantomeno del centrodestra di governo. L’ex premier va più in là, e non cessa di immaginare il partito unico, anche se i sondaggi sono impietosi nel dire che una lista unitaria fra Forza Italia e il Carroccio prenderebbe molti meno voti dei due partiti separati, confermando la regola che nella politica italiana due più due fa spesso tre, quasi mai quattro e assolutamente mai cinque.

Eppure il dialogo fra i due continua, e Salvini ad Arcore è andato a spiegare che una fusione a freddo tra partiti non è neppure immaginabile, e bisogna far maturare i tempi. Per questo la federazione costituisce il primo passo, anche per controbilanciare la sinistra e dare più peso all’azione del centrodestra al governo. Resta da capire quanto la leadership di Berlusconi sia ancora assoluta su Forza Italia, vista la quantità di voci contrarie alla federazione, da Carfagna a Gelmini. Il rischio è che lo sfaldamento dell’ex partitone azzurro prosegua, con uno smottamento di quadri verso la neonata formazione centrista di Toti e Brugnaro, Coraggio Italia. Le precarie condizioni del Cavaliere fanno della sua creatura politica la mina vagante del sistema dei partiti.

Tanto a destra quanto a sinistra saranno le amministrative di ottobre a emettere i primi verdetti. Serviranno a chiarire i rapporti di forza interni alle coalizioni, definendo quale linea politica abbia maggior forza. La madre di tutte le battaglie sarà quella per la conquista del Campidoglio. A Roma Letta, la Meloni e Conte (per il tramite della Raggi) si giocano tutto. Dopo il voto il riassetto delle alleanze sarà molto più semplice.

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