L’Italia si colora di rosso: non il rosso della sinistra, visto lo stato comatoso in cui si trova il Pd, ma il rosso delle chiusure. Draghi e Speranza puntano su un piano vaccinale da 50 milioni di dosi inoculate entro l’estate. È l’ultima scialuppa che può salvare la ripartenza e il paese. Con le nomine di Gabrielli ai Servizi, Figliuolo a nuovo commissario all’emergenza e Curcio alla Protezione civile, la struttura che dovrebbe garantire l’ultimo, decisivo miglio della vaccinazione di massa attende solo di essere pienamente operativa.



Secondo Stelio Mangiameli, ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Teramo, alcuni compiti spettano ai tecnici del governo, Draghi compreso, altri ai partiti. I primi dovrebbero evitare “le prassi deformanti” adottate dal Conte 2. Ce lo diranno il decreto sostegno e il Recovery Plan. Quanto ai partiti, “la collaborazione potrebbe e dovrebbe produrre una legittimazione reciproca”, che potrebbe preludere ad una nuova stagione del bipolarismo.



Che cosa ci deve preoccupare di più? Il piano vaccini o l’esito del Recovery Plan?

La questione più preoccupante è la debolezza della campagna vaccinale. La lentezza con cui stiamo procedendo alla vaccinazione della popolazione è il vero danno, perché ritarda la ripresa naturale del ciclo economico.

Le cause?

Sono diverse: dalla gestione fallimentare del Conte 2 all’inadempimento contrattuale dei Big Pharma, alla debolezza delle competenze sanitarie dell’Unione Europea, all’incapacità di una produzione in house dei vaccini anche per l’insipienza di non avere fatto investimenti nazionali da lungo tempo nella ricerca.



Vede segni di una svolta?

Per lo meno in questa direzione il governo Draghi ha battuto più di un colpo, attraverso l’embargo dell’esportazione di vaccini verso l’Australia e anche per avere effettuato dei passi verso la produzione nazionale di vaccini. In più, mentre alcuni governi hanno assunto comportamenti slabbrati in direzione dell’Ue, come l’Austria e la Danimarca o l’Ungheria, il nostro governo ha espresso una certa leadership europea; il che lascia bene sperare per il futuro.

Se veniamo al Recovery Plan?

Nei motivi di preoccupazione, il Piano nazionale di ripresa e resilienza viene immediatamente dopo. Quello elaborato dal precedente governo sarebbe stato rigettato interamente dalla Commissione; troppo poco preciso e quasi del tutto privo di previsioni tecniche.

E Draghi?

Sarà certamente impegnato più direttamente e, nonostante si tratti di un lavoro enorme da fare in poco tempo, si avvarrà di pochi ministri del suo governo, per lo più di quelli tecnici. A mio avviso, il governo potrebbe però fare una cosa importante.

Quale sarebbe?

In occasione della presentazione del Piano, promuovere un dibattito parlamentare, davanti all’opinione pubblica, che consenta una più diretta assunzione di responsabilità ai partiti politici, senza il mercanteggiare che era iniziato nelle stanze governative del Conte 2 quando si cominciò a parlare dei fondi.

Era proprio necessario che il Mef chiedesse consulenze strategiche a McKinsey sul Recovery Plan?

Il ricorso a questi consulenti nei ministeri e negli enti pubblici è meno insolito di quanto non possa apparire. Molte volte, per procedere a due diligence, alla ristrutturazione di enti, alla formulazione di piani strategici e programmi di attività, la Pa italiana è solita ricorrere a questo genere di consulenza.

Qui desta scalpore perché è stato fatto da un governo che ha addosso l’etichetta del governo tecnico.

È vero, tuttavia non sopravvaluterei la vicenda, che comunque mi sembra di modesta entità e legata con molta probabilità allo studio Shaping the digital transformation in Europe che McKinsey aveva già effettuato per la Commissione europea il 19 febbraio 2020 e che il 20 settembre 2020 la stessa Commissione ha definitivamente accolto tra i documenti di cui gli Stati membri devono tenere conto per la predisposizione dei piani nazionali del Next Generation Eu. Vuol dire che per questa parte del piano il governo si è rivolto proprio a chi ha formulato le linee guida europee.

Di fronte all’emergenza dobbiamo temere un ritorno al tambureggiare dei Dpcm con conseguente marginalizzazione del parlamento?

Per quel che si è saputo, Draghi avrebbe preferito un decreto legge al Dpcm e non sembra un caso che dopo la sottoscrizione non sia andato di persona a spiegarlo, ma abbia mandato due ministri, uno proveniente dalla sinistra e l’altro dal centrodestra.

Ci si è molto interrogati su questa scelta. Secondo lei?

Non credo che lo abbia fatto per debolezza. Ha consentito a coloro che avevano sostenuto Conte e che sono nella compagine del governo attuale di non perdere del tutto la faccia. Staremo a vedere se prevarranno gli elementi di continuità, con le prassi deformanti introdotte dal precedente governo, oppure se l’azione di governo abbia preso un abbrivio diverso.

Che opinione si sta facendo?

A me pare che si debba guardare alla configurazione del nuovo governo senza pregiudizi. Data la mancata soluzione della crisi e l’impossibilità di sciogliere le Camere per via della pandemia, il presidente della Repubblica ha deciso la nomina di Draghi a presidente del Consiglio agendo nella sua veste di supremo reggitore dello Stato in momenti di crisi. Draghi ha messo insieme un governo al cui interno sono presenti tutte le componenti politiche con la sola eccezione di FdI, di una frangia del M5s e di una pattuglia molto piccola della sinistra. Ciò rende diverso questo governo dai cosiddetti governi tecnici o del presidente della Repubblica del passato.

Per quale motivo?

Perché in questo caso l’intera classe politica del Paese è coinvolta nell’azione di governo, pur non essendo stata in grado di risolvere la crisi autonomamente. Ora, la presenza di tutte le forze politiche implica che le scelte di governo sulla pandemia e sul Recovery Plan non saranno attribuibili a merito o a demerito di questa o quella forza politica.

E quindi?

In questa condizione è interesse di tutti riuscire a fare bene, non essendoci alcun vantaggio politico a lucrare sull’insuccesso dell’azione di governo.

A giorni il Parlamento sarà investito dell’esame del decreto sostegno. Che cosa ci aspetta?

Non lo sappiamo. Ma anche in questo caso potremo verificare se i contenuti economici della manovra rispondano ad una visione più strategica e se il Parlamento, quasi tutto in maggioranza, riuscirà a lavorare senza lo spirito della contrapposizione che costringeva i governi a porre sempre la questione di fiducia sui testi dei decreti legge.

E se invece questa fase di unità nazionale fosse il funerale della politica?

Non credo che siamo a questo, cioè a un governo che agisce in assenza di una rappresentanza politica o con un parlamento in condizione comatosa, come accadde con il governo Monti. Il Parlamento attuale deve aspettare ancora un po’ per essere rinnovato. Se le forze politiche vogliono sopravvivere alle prossime elezioni, devono necessariamente mostrarsi all’altezza della situazione. Draghi stesso le ha esortate a “fare un passo avanti nel rispondere alle necessità del Paese” e “ad agire in un nuovo e del tutto inconsueto perimetro di collaborazione”.

Però in questo “perimetro di collaborazione” M5s e Pd si stanno disgregando.

Il fatto che i partiti della maggioranza del Conte 2 stiano conoscendo delle fibrillazioni è del tutto normale, per due ragioni. La prima è che proprio questi partiti non erano riusciti a mantenere la direzione del governo e si ritrovano in compagnia delle donne e degli uomini di Salvini e di Berlusconi, oltre che di Renzi.

La seconda ragione?

Proprio il Pd e il M5s, quando sono stati al governo, hanno praticato in modo ossessivo una visione politica basata sulla demonizzazione dell’avversario e questo ha determinato una profonda irrequietezza di una parte dei loro militanti.

Dunque dovrebbero prendere sul serio questa fase per non sparire.

La collaborazione potrebbe e dovrebbe produrre una legittimazione reciproca, impedendo nel futuro una competizione politica fondata sulla “fight to hell” come è accaduto sinora.

Prima di dimettersi Zingaretti sembrava avere instaurato un asse con Salvini per una legge elettorale maggioritaria. Ovviamente adesso non se ne parlerà più. Secondo lei si va verso una ri-bipolarizzazione del quadro politico?

Il tema della legge elettorale è divisivo, ma prima o poi dovrà essere affrontato e non è detto che prevalga la logica del proporzionale. Infatti il Pd medita di riuscire ad esercitare una certa egemonia in una certa area politica, anche se poi, per carenze culturali, si lascia imbrigliare da quelli che un tempo si chiamavano i cespugli. Chiunque dirigerà il partito dopo Zingaretti avrà in mente questo modello e vorrà applicarlo anche al M5s che, alla luce dei sondaggi, potrebbe trovarsi già durante le prossime elezioni in una situazione di soggezione. Non è un caso che solo il M5s voglia un sistema proporzionale. Se la logica maggioritaria dovesse prevalere, allora sicuramente si potrebbe avere una nuova stagione di bipolarismo.

(Federico Ferraù)

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