Sanitaria, economica, sociale e politica. Sono i quattro volti della crisi implementata in questi nove mesi dall’emergenza Covid. Sul fronte sanitario, ieri in Italia si sono registrati 23.232 nuovi casi, con un tasso di positività al 12,3% e un’impennata dei decessi (853). In campo economico, “nel 2021 la ripresa sarà verosimilmente più lenta del previsto” ha affermato Eugenio Gaiotti, capo del dipartimento Economia e statistica della Banca d’Italia, nel corso dell’audizione sulla prossima Legge di bilancio. A livello sociale, è recentissimo l’allarme lanciato dal Censis, secondo il quale usciremo dalla pandemia con un aumento delle diseguaglianze. Infine, la politica, contrassegnata da scontri, tensioni e diverbi continui a tutti i livelli: fra Governo e Parlamento, fra maggioranza e opposizione, fra Stato centrale e Regioni. Di fronte a tutto questo, che prezzo pagherà il paese? Ne abbiamo parlato con Ferruccio de Bortoli, editorialista del Corriere della Sera, di cui è stato due volte direttore, nonché direttore del Sole 24 Ore dal 2005 al 2009, autore del recente libro Le cose che non ci diciamo (fino in fondo), in cui chiede un’operazione-verità sui tanti pericoli e storture che si tende normalmente a sottacere.
È vero che stiamo vivendo una grave emergenza, ma l’epidemia è un’occasione persa per ripensare il paese, correggendone i difetti atavici?
Non si può ancora dire che sia un’occasione persa. Certo, però, che stiamo mettendo i presupposti e le basi perché la si possa sprecare. Siamo ovviamente impegnati nell’affrontare l’emergenza della pandemia, abbiamo ugualmente il dovere di pensare al dopo e di evitare per esempio che non saremo più in grado di crescere, di sostenere uno Stato così costoso e di rischiare di vedercelo fallire. Se dovessimo veramente trovarci in una simile situazione, è chiaro che ci ritroveremmo con nuove ingiustizie, nuove povertà, nuove malattie.
Il Covid ha messo a nudo un nodo politico che si trascinava da anni: anziché essere affrontata, come più volte richiesto anche dal Capo dello Stato, con uno spirito di unità nazionale e di concordia, l’emergenza ha visto via via approfondirsi solchi sempre più profondi fra i vari livelli istituzionali e politici. Una tale disarticolazione lascerà solo macerie?
Ci troviamo di fronte a un analfabetismo istituzionale e a molti comportamenti ambigui, subdoli o quanto meno dettati da esigenze particolaristiche. Stiamo dando l’immagine di un paese miope, invecchiato e ripiegato su se stesso, ma anche incapace di vivere un’emergenza con spirito unitario. In Portogallo, per esempio, il capo dell’opposizione, quando è arrivato il Covid, si è messo subito a disposizione per lavorare insieme contro il virus, il comune nemico. Non ha atteso che gli fosse richiesta questa disponibilità dal Presidente della Repubblica o dalla maggioranza di governo.
In Italia?
In Italia oggi vediamo che le maggiori preoccupazioni si concentrano sulla ricerca di unità nel centrodestra o sull’intento del governo nel cercare di dividere le forze dell’opposizione. Vediamo anche Regioni, molto gelose delle proprie autonomie, contrapporsi allo Stato, ma pronte ad accusarlo nel momento in cui non prende alcune decisioni che loro ritengono debbano essere solo nazionali, come sull’approvvigionamento dei vaccini.
Morale?
L’Italia è un paese che si è balcanizzato nelle sue differenze, sfruttando il virus per regolare partite in corso, mentre tutti dovremmo abbandonare divisioni, strumentalizzazioni, interessi corporativi e affrontare insieme il Covid. Come peraltro sta facendo l’insieme dei cittadini italiani, il nostro capitale sociale.
Per ricostruire servono riforme istituzionali o un nuovo patto tra i partiti?
Non credo molto a nuovi patti, ne stiamo proponendo in questi giorni già troppi. Serve semplicemente l’incontro fra persone ragionevoli. Come avvenne in fasi drammatiche della vita della nazione: contro il terrorismo, per esempio, si adottarono atteggiamenti conseguenti. Adesso, purtroppo, ogni giorno c’è una strenua rincorsa a conseguire il massimo vantaggio politico in termini di consenso, sfruttando dati a volte incompleti o polemiche di giornata. È un limite dell’educazione, della preparazione e della competenza dei protagonisti della nostra vita politica.
Il governo ha peccato di supponenza nella gestione di questa emergenza?
Può aver senz’altro peccato di supponenza, di superficialità, anche di arroganza. È un governo che, a differenza del precedente, ha ottenuto una forte legittimazione internazionale e non si può negare come abbia ottenuto un buon risultato sui fondi europei che dovrebbero arrivare a beneficio del nostro paese.
Detto questo?
Spesso il premier ha mostrato qualche vanità di troppo, qualche comunicazione eccessivamente auto-riferita. Non c’è stata poi tutta la trasparenza promessa e sarebbe stato onesto, con maggiore umiltà, ammettere che di fronte a un virus che solo nove mesi fa non c’era qualche errore è stato commesso. Vale per il governo e vale per i governatori delle Regioni. Riconoscere gli errori aiuta a non ripeterli.
È d’accordo con chi dice che chi sta pagando il prezzo più alto sono i giovani?
Le ultime statistiche dell’Istat mostrano che i posti di lavoro perduti sono soprattutto quelli a tempo determinato, visto che i posti a tempo indeterminato sono per il momento tutelati da un’estensione della cassa integrazione che ha scaricato una pressione indebita proprio sui soggetti del lavoro più deboli, con contratti più precari, in larghissima parte i più giovani. Anche dal punto di vista reddituale le perdite maggiori hanno colpito i più giovani, garantendo gli anziani con misure come Quota 100 e reddito di cittadinanza, che si sono rivelate del tutto inadeguate.
Che cicatrici lascerà su economia e lavoro l’emergenza Covid?
Lascerà cicatrici profonde che possiamo tentare di curare se avvertiremo per tempo i soggetti più deboli che non tutte le aziende potranno essere salvate. E non è giusto nemmeno salvarle, perché questo toglie risorse a nuove aziende che dovrebbero crescere ed essere finanziate con una migliore qualità del credito proprio per creare nuovi posti di lavoro. Lascerà poi cicatrici profonde, difficilmente curabili, se noi non diremo che il posto di lavoro non è garantito dal fatto che ci possano essere ristori, risarcimenti e casse integrazioni. Deve essere aiutato di più il lavoratore con politiche attive a trovarsi un nuovo impiego.
Intanto aumenta la povertà. L’unica risposta è lo Stato assistenziale?
Se diamo l’impressione che, indebitandoci senza limiti, ci possa essere una sorta di Stato protettore, di Stato mamma che comunque si prenderà cura di tutti e avrà le risorse infinite per farlo, stiamo ingannando ulteriormente gli italiani, esonerandoli da una responsabilità personale. Di fronte a una situazione così drammatica, in cui si rischiano nuove disuguaglianze e nuove povertà, bisogna avere la forza di dire: bisogna sacrificarsi, le persone che hanno di più dovranno prepararsi a dare di più. Bisogna riscoprire lo stesso spirito che ha animato gli anni della ricostruzione dopo la Seconda guerra mondiale. Manca questo discorso di verità.
Lo Stato onnipotente: vuole proteggere, sussidiare, fare l’imprenditore in prima persona. Che rischio corre il paese schiacciato da questo iper-attivismo paternalistico?
Siamo prodighi nel dare analgesici e anestetici che rischiano di trasformarsi in una sorta di grande metadone, che alla fine non permette di sviluppare gli anticorpi: imprenditorialità, produttività, libera iniziativa. Il posto di lavoro vero, il reddito vero non te li dà nessuno e non esiste un benessere di cittadinanza.
Oltre allo Stato onnipotente, come lei ha ricordato in un recente editoriale sul Corriere della Sera, siamo sotto l’effetto di un altro analgesico: il debito alto. Ne stiamo creando troppo?
Poiché credo che sul nuovo debito sia necessaria una grande consapevolezza dei costi impliciti al di là dei tassi che si sostengono, mi colpisce la pericolosa sensazione che si possano fare debiti senza limiti. Se si diffonde la sensazione che non si è attenti alle spese, si fa la peggior lezione di educazione civica, fino ad arrivare a snobbare il possibile risparmio di 500 milioni con il Mes. Abbiamo svalutato la percezione morale del debito. Così però non siamo incentivati a tagliare le spese improduttive. Alla fine abbiamo considerato – per dirla alla Draghi nel suo discorso all’ultimo Meeting di Rimini – che il “debito cattivo”, proprio per l’emergenza Covid, sia forzatamente “buono”.
Anche i fondi del Next Generation Eu sono debiti, ma – sempre per dirla alla Draghi – andrebbero usati come “debito buono”?
Il Next Generation Eu è un’occasione storica, che in Italia – guarda caso – non si traduce mai con Nuove generazioni. Ma solo se pensiamo al fatto che il 37% di quei fondi va destinato alla transizione energetica e che nella Legge di bilancio 2021 in discussione non vi è nulla che in qualche modo affronti con decisione l’esistenza di 19 miliardi di sussidi ambientalmente dannosi, dimostriamo che nella normalità non siamo in grado di perseguire quell’obiettivo di svolta green che, tra l’altro, si porta competitività del sistema economico, creazione di nuovi profili professionali, occasioni per i giovani. Nello stesso tempo, parliamo molto di digitalizzazione, ma abbiamo destinato molte più energie e risorse ai banchi con le rotelle, in legno e acciaio, che alla formazione digitale delle famiglie.
Che cosa dovrebbe fare l’Italia per uscire da queste sabbie mobili?
Intanto dobbiamo ricordare che non siamo riusciti a spendere neppure tutti i fondi di coesione e di sviluppo concessi dalla Ue nel suo ultimo bilancio settennale che si chiuderà nel 2021. Questo dovrebbe farci riflettere: non solo non riusciamo a mettere a terra le riforme perché manca sempre qualche decreto attuativo, ma non siamo capaci di garantire l’execution di grandi progetti. Dopo 30 anni un grande progetto perde la sua valenza, funzionalità ed efficacia. E poi bisogna pensare alla crescita.
Come dare la spinta giusta?
Con la produttività, ferma ormai da più di 20 anni e di cui non si occupa nessuno. Cito un solo esempio: si parla di produttività nelle trattative per il rinnovo del pubblico impiego? Per nulla. Solo grazie a produttività e crescita del valore aggiunto si possono creare lavori di maggiore qualità. Il che significa tornare a investire sul capitale umano, sulla formazione continua. Si tratta di investire sui nostri figli e sui nostri nipoti. E questo apre a una domanda di fondo.
Quale?
Stiamo facendo per i nostri figli e per i nostri nipoti gli stessi sacrifici e con la stessa lungimiranza che hanno dimostrato i nostri genitori e i nostri nonni?
La sua risposta?
Purtroppo no.
(Marco Biscella)