Christine Lagarde suona la fine dell’era Qe: è lo stop agli acquisti di titoli che hanno permesso di calmierare il nostro spread. Per noi le cose si complicano: tra aumento dei prezzi, caro energia, crisi di interi settori industriali e perdita di posti di lavoro, la situazione italiana va incontro ad un rapido peggioramento, che potrebbe esplodere in autunno con una crisi del nostro debito sovrano. Ma la cosa più singolare è che nessuno ne parli. Viene addirittura il sospetto che l’intrigante caccia ai filorussi d’Italia sia l’ultima avvisaglia, in ordine di tempo, di un ambiguo stato di eccezione.



Ne abbiamo parlato con Antonio Pilati, saggista, esperto di comunicazione, già componente di AgCom e Antitrust.

La svolta della Bce è arrivata: stop all’acquisto di titoli (Qe) dal 1° luglio e annuncio del rialzo dei tassi di 25 punti in luglio. Il nemico resta l’inflazione.

L’inflazione cresce in maniera significativa e questo è un problema, perché i salari non crescono altrettanto, dunque per gli occupati si crea un gap che riduce le capacità di spesa. Ma l’inflazione dipende da fattori esterni relativi all’offerta, dal fatto che l’energia costa sempre di più, e questo non lo si risolve con i price cap, perché a fare il prezzo dell’energia, del grano e dei fertilizzanti sono le leggi del mercato. E a ridurre l’offerta, bloccando il mercato, sono le sanzioni.



La benzina costa 2 euro al litro, i prezzi degli alimentari aumentano, ma i sondaggisti dicono che gli italiani non hanno ancora la percezione di quello che avverrà in autunno. Secondo lei?

È vero: la gravità della situazione non è ancora di dominio pubblico e il governo non credo voglia alimentare. Di sicuro l’Italia è avviata verso un rapido peggioramento: perdita di posti di lavoro, squilibrio macroeconomico, erosione dei risparmi familiari e individuali.

Cosa farà l’Europa quando esploderà la crisi?

Se la Bce non acquista più il nostro debito, dovrà trovare un altro modo per sostenerci, altrimenti tutta la costruzione comunitaria entrerà in crisi. Penso ad un’erogazione rigidamente condizionata, o sotto forma di Mes o di altro strumento. 



Vuol dire commissariamento.

Di fatto siamo già avviati su questa strada. La combinazione fra debito pubblico, inflazione in crescita e problemi negli scambi economici internazionali è micidiale. Mette in piena evidenza la debolezza intrinseca, strutturale dell’Italia. 

Cosa ci dice la vicenda dell’informativa del Dis, dei “putiniani” all’indice sul Corriere e del rapporto del Copasir? 

È il sintomo di una tendenza più generale che si è andata accentuando negli ultimi anni: quella di un marcato indebolimento della libertà di espressione. Adesso le opinioni e le iniziative che sono fuori dal pensiero prevalente, direi ufficiale, sono rapidamente demonizzate.

Due mesi fa lei ci diceva che nei terribili anni 70 il discorso pubblico era più libero. Ne è ancora convinto?

Sì, perché lo scontro ideologico era aspro, fior di intellettuali si esprimevano con argomenti vicini alle istanze dei gruppi armati, ma la libertà di espressione era salvaguardata. Il terrorismo era qualcosa di ben più grave che il dissenso rispetto alla linea politica del governo sull’Ucraina.

Non crede che questa situazione dipenda da un’ambiguità di fondo, l’essere co-belligeranti senza averlo dichiarato?

Può essere. Ma o decidiamo che siamo in guerra e in stato di eccezione, oppure, se non siamo in stato di eccezione, la libertà di opinione dev’essere piena e garantita.

Oppure siamo in uno stato di eccezione formalmente non dichiarato. 

Sarebbe grave, perché uno stato di eccezione non dichiarato, ma vigente, è un regime. 

Federica Dieni (M5s, Copasir) ha detto che “sulla disinformazione faremo approfondimenti a 360 gradi”, mentre il presidente Adolfo Urso (FdI) ha dichiarato che la vigilanza serve ad “aumentare la resilienza del Paese”. Felice Casson, già segretario del Copasir, ha detto che il comitato non deve controllare la disinformazione, ma l’operato dei servizi. 

Chi stabilisce cos’è la disinformazione? La mia opinione non allineata è disinformazione? Mi sembra grave sostenere che quelli che la pensano diversamente per questo disinformano. E poi la politica è fatta anche di propaganda, di bugie, di fake news.

Non esageriamo.

Per quarant’anni la vita politica della repubblica è stata dominata da un’enorme fake news, quella che in Urss ci fosse il paradiso dei lavoratori. Se avessimo misurato la politica con il metro della disinformazione, avremmo dovuto chiudere il Partito comunista italiano.

Tornando al Copasir?

La caccia alla disinformazione pensando che il cacciatore abbia il monopolio della verità è un’idea pericolosa. Limita la libertà di espressione e la libertà di accesso dell’opinione pubblica a fonti di informazioni differenziate. Riduce lo spazio democratico.

“Guerra, cresce l’area di chi non si schiera” ha titolato il Corriere l’ultimo sondaggio Ipsos (8 giugno 2022). Come commenta?

Ho l’impressione che ci sia una forte differenza di vedute tra partiti, governo e gente comune. Gli italiani sono molto preoccupati per la guerra, ma non la vivono come un’emergenza democratica, piuttosto temono per le conseguenze sull’economia e sulla loro vita quotidiana. Questo crea probabilmente un certo disagio nel mondo politico e potrebbe spiegare alcune iniziative, come quelle che hanno fatto notizia in questi giorni.

Mercoledì Draghi ha incontrato Macron a Parigi. Sembra che i due vogliano fare asse comune in vista del prossimo Consiglio europeo, e sostengano la necessità di un Recovery bis. Forse è prematuro parlarne. La sua impressione? 

L’Europa è inserita in una politica molto dura, guidata dagli americani, che non pagano il prezzo della guerra ma lo impongono all’Europa, sia dal punto di vista energetico che commerciale. L’interesse dei Paesi del Centro e del Sud Europa sarebbe quello di spingere per un negoziato con la Russia, ma le condizioni per farlo non ci sono, perché Stati Uniti, Polonia e Paesi baltici non lo vogliono.

(Federico Ferraù)

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