Il Def, il Documento di economia e finanza che il Tesoro sta preparando e sarà presentato tra una settimana, esattamente mercoledì 10, ha tre cifre chiave strettamente collegate: la crescita e il deficit che genera debito. Secondo indiscrezioni, verrà scritto un aumento del Pil dell’un per cento quest’anno (di poco inferiore all’1,2% della Nota di aggiornamento, nel settembre scorso). Quanto al disavanzo previsto al 4,3% e al debito stimato originariamente al 140%, molto dipenderà dall’effetto perverso del Superbonus. E qui stiamo assistendo a un pericoloso psicodramma.



Non si può dire non sparate sul pianista perché Biagio Mazzotta, Ragioniere generale dello Stato, c’entra eccome in questo gran bailamme. Attendiamo la relazione che la Ragioneria sta preparando per spiegare che cos’è andato storto e perché l’impennata dei costi nel 2023 non era facilmente prevedibile. Ma attenzione perché le pallottole che oggi si dirigono verso il musicista sono in realtà rivolte al gestore del saloon, fuor di metafora il ministro Giancarlo Giorgetti. Tanto che circolano già molte voci: giubilato sulla via di Bruxelles magari con la promessa che farà il Commissario, sarebbe sostituito da Maurizio Leo il plenipotenziario fiscale di Fratelli d’Italia.



Un primo fatto da considerare è lo straordinario extradeficit (ben 39 miliardi, l’1,8% del Pil) che il Superbonus ha causato nel 2023 rispetto alle previsioni formulate a fine settembre nella Nadef. A fine anno si sarebbe accumulato uno stock di crediti maturati pari a 114 miliardi di euro. Al netto delle maggiori entrate fiscali stimabili al 20%, l’Osservatorio sui conti pubblici presso l’Università cattolica calcola che l’anno si sia chiuso con un fardello di 91 miliardi di euro che si trascina sul bilancio del 2024. L’ipotesi che l’Ocpi ritiene più plausibile è che vi sia stata una corsa per usufruire delle ultime deroghe rispetto al decreto di febbraio 2023, con certificazioni dubbie sull’entità dei lavori e sul loro stato di avanzamento.



Abolire il Superbonus era ormai una necessità. Ma la misura ha un impatto recessivo. La crescita del 2023 è stata trainata dall’edilizia e da Industria 4.0, sottolinea Gregorio De Felice, Chief economist di Intesa Sanpaolo. Si tratta di due sostegni pagati con il bilancio pubblico. La seconda misura è stata rifinanziata anche se solo in parte, ma l’industria delle costruzioni subirà un colpo. Per il 2024, si prevede un crollo degli investimenti in ristrutturazione e un forte calo degli investimenti totali, l’Ance calcola un meno 7% sempre che le opere pubbliche previste dal Pnrr (+20%) si trasformino in cantieri e non è affatto detto visto l’andazzo dei mesi scorsi. Quindi, il Governo sarà costretto a varare un nuovo pacchetto di aiuti per i quali finora non è previsto un euro.

Il Pil è stato spinto dall’industria, a cominciare da quella che esporta, e dal turismo. Se i primi dati per quest’ultimo sono più che incoraggianti, lo stesso non si può dire per la manifattura. La domanda estera è incerta e dominata dai venti di guerra. La domanda interna è legata alla politica fiscale, mentre si sentono gli effetti dell’inflazione e dei tassi d’interesse sui bilanci delle aziende. Secondo Unimpresa, ammontano a oltre 34 miliardi di euro i prestiti bancari non rimborsati dalle aziende italiane: il record è delle imprese della Lombardia, dove gli arretrati dei finanziamenti valgono, con quasi 8 miliardi, il 23% del totale nazionale, seguita dal Lazio. I crediti deteriorati pesano sulle banche i cui bilanci sono nettamente migliorati anche grazie al rialzo dei tassi d’interesse, un beneficio che si ridurrà nella seconda parte dell’anno.

Il risultato è che l’equazione a tre incognite (lotta all’inflazione, riduzione del debito e crescita) per il momento non ha una soluzione chiara. Mettere sott’attacco, anzi destabilizzare, il vertice del ministero dell’Economia non aggiunge certezza e credibilità alla politica del Governo. Se ci sono errori vengano individuati, fatti e cifre alla mano non con campagne giornalistiche. Cominciando con il riconoscere che lo spendi e spandi di tutti i ministeri ha caratterizzato già la Legge di bilancio dello scorso anno e la prudenza di Giorgetti ha suscitato un’ondata di malumori. Si è sentito di qua e di là il ron ron contro un ministro troppo draghiano, se non proprio succube della frusta europea, che non è riuscito a rovesciare il ritorno all’austerità insito nel nuovo Patto di stabilità. Le critiche sono sempre ben venute se ben fondate, ma trovare un capro espiatorio e trasformare Giorgetti in un san Sebastiano è nell’insieme grottesco e pericoloso.

Al di là di manovrone e manovrine resta la questione di fondo: il debito. È troppo alto, la riduzione dell’inflazione fa scomparire anche l’effetto monetario che lo svaluta, è vero che il taglio dei tassi, maturo secondo il Governatore italiano Fabio Panetta e previsto per giugno, potrà contenere la spesa per interessi, ma c’è una forza inerziale che porta l’ammontare assoluto verso i tremila miliardi e il costo verso i 100 miliardi di euro annui. Quest’anno sono da rinnovare titoli pubblici per 384 miliardi di euro. È fondamentale che il mercato, cioè i risparmiatori direttamente o attraverso le istituzioni finanziarie, siano certi di non salire su un autobus guidato dai fratelli Marx.

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