Il Senato ha votato la fiducia sul decreto sicurezza bis con 160 voti favorevoli. 57 i contrari e 21 gli astenuti, Forza Italia è rimasta in aula ma non ha partecipato al voto, astenuti Fratelli d’Italia. C’è però un fatto politico al quale non è stato dato il dovuto rilievo. Le dimissioni di Massimo Bugani da numero due della struttura di Luigi Di Maio a Palazzo Chigi cambiano tutto. Non solo nel Movimento 5 Stelle: insieme alla Tav, potrebbero imprimere una svolta anche alle sorti del governo e a quelle della legislatura, dice Paolo Becchi, filosofo del diritto, prima molto vicino a Gianroberto Casaleggio e oggi alla Lega di Salvini.
Partiamo da Bugani, professore.
Bugani non è un deputato o un senatore qualsiasi, è una figura storica di M5s. Una persona seria, rigorosa, punto di riferimento in Emilia-Romagna, che a mio avviso ancora controlla. È attraverso di lui che Gianroberto riuscì ad espellere Salsi, Favia e Pizzarotti.
Perché Bugani si è dimesso?
Si sono appena svolte le europee, M5s è sceso al 17% e Grillo pubblica sul suo blog un post enigmatico: “E adesso…?”, facendo capire che sulla Tav non si può mollare, che M5s dev’essere fedele alla propria storia, tornare alle origini e via dicendo. Tutte critiche velate a Di Maio, ma senza nominarlo.
Vada avanti.
Dopo quel post di Grillo è Bugani a dire la sua. Scrive un post per dire che Di Battista è complementare a Di Maio, che entrambi rappresentano anime diverse e legittime del M5s. A quel punto di Maio va su tutte le furie e gli dice di astenersi dall’intervenire pubblicamente. Aggiungo che Bugani è l’unico in M5s che fa parte dell’associazione Rousseau, insieme a Davide Casaleggio.
E così arriviamo alle dimissioni.
Quella di Bugani è una scelta politica: smarcarsi. Una decisione importante che sicuramente non ha preso da solo: è evidente che ci sono dietro Casaleggio e Grillo. E Di Battista su Facebook ha subito dichiarato di concordare con Bugani. Stiamo parlando di pezzi da novanta. Un messaggio molto forte che tra l’altro arriva in un momento drammatico per M5s, per via del decreto sicurezza bis e soprattutto per la Tav.
Il Senato ha votato la fiducia al decreto sicurezza con 160 voti a favore. FI e FdI hanno abbassato il quorum.
Era prevedibile.
Passerà anche la Tav. Ma non con i voti di M5s.
Appunto. Il dato politico è duplice: è emerso un dissenso radicale verso Di Maio. Non parliamo di qualche parlamentare riottoso da espellere, ma di un fondatore di M5s. L’altro elemento è altrettanto grave: Di Maio non controlla più il Movimento.
Torniamo alla Torino-Lione.
Di Maio pensa di risolvere il problema con la discussione in Parlamento e un voto normale, non di fiducia, in cui Lega, frange berlusconiane fedeli a Toti, Fratelli d’Italia e qualcun altro dicono sì alla Tav. Governo salvo, 5 Stelle compatti e tutti amici come prima.
E invece?
Questa è la strategia che ha pensato Di Maio per uscirne pulito: non farebbe una piega se Bugani fosse ancora al suo posto, ma non è così. Di Maio vacilla. E qui torniamo alla Tav. Il sì alla Tav senza M5s mostrerebbe l’esistenza di una maggioranza diversa da quella che sostiene il governo su un voto strategico per il paese. Salvini ne prenderebbe atto e, credo, solleverebbe alcuni problemi.
Quali?
Innanzitutto l’incoerenza politica di M5s, che al governo con Conte e con il ministero delle Infrastrutture – non Toninelli, che non ha firmato – dà parere favorevole alla Tav ma in Parlamento vota contro. Non solo: presenta una propria mozione contro quello che di fatto ha deciso il governo con il consenso di tutti, M5s compreso. Una cosa pazzesca. E le difficoltà non sarebbero finite qui.
Che cosa intende?
Se domani M5s presenta in Parlamento una mozione contro la Tav, si vota su quella mozione e la mozione non passa, come fa poi il governo, espressione a maggioranza dei 5 Stelle, a presentare la sua proposta a favore della Tav?
Un labirinto di contraddizioni. A questo punto che cosa farebbe Salvini?
Credo che metterebbe Conte di fronte alle sue responsabilità. Il presidente del Consiglio dovrebbe constatare che in Parlamento si è venuta a creare una maggioranza diversa da quella che governa il paese. Non sarebbe il caso di avvisare il presidente della Repubblica? Cosa può pensare Mattarella di un governo che non si regge più sulla maggioranza che l’ha votato? Siamo pur sempre una repubblica parlamentare.
Dunque lei sente odore di crisi. Per tornare alle urne manca solo un piccolo dettaglio: che Mattarella sciolga le Camere. Lei stesso ha detto che Salvini ci sperava, ma sappiamo che i convincimenti del Colle sono altri. E quando una crisi di governo viene parlamentarizzata, si sa come comincia, ma non come finisce.
Vero; gli sviluppi però portano in un’altra direzione, che potrebbe preoccupare anche il Capo dello Stato. Tutto il quadro politico sta cambiando: FI è destinata a sparire, lacerata da una scissione profonda; il Pd di Zingaretti non è il Pd di Renzi e i parlamentari sono di Renzi; i rapporti di forza tra Lega e 5 Stelle sono di fatto esattamente rovesciati dopo le europee. Nel paese reale c’è una maggioranza diversa rispetto a quella che c’è nel governo. Inoltre se in Parlamento si aggregano forze diverse da quelle della maggioranza nata con la legislatura, non sarebbe giusto interrogare nuovamente il popolo con le elezioni anticipate?
D’accordo, ma quando? Nella primavera 2020?
A questo punto il prima possibile. Meglio una fine spaventosa di uno spavento senza fine.
(Federico Ferraù)
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