L’insediamento del Governo Draghi ha suscitato diverse reazioni nelle coalizioni politiche, aperto una fase di metabolizzazione del lutto nei partiti che sostenevano il Conte-bis, che ha comportato un ricambio dei leader del M5s e del Pd, e una formale scomposizione di quelli di centrodestra, relegando all’opposizione la componente di Fratelli d’Italia. Ma tutto sommato, tutti questi movimenti hanno contribuito finora a rafforzare il consenso e l’autorevolezza del nuovo Esecutivo. Per l’oggettiva necessità di sfruttare al meglio la credibilità dell’ex Presidente della Bce nel gestire una delicata transizione politica, mettendola al riparo delle possibili ripercussioni in ambito sovranazionale e sui mercati finanziari. Per l’esigenza di rinvigorire il rapporto tra le istituzioni della Repubblica, in particolare tra lo Stato e le Regioni, per fronteggiare la pandemia e per mettere a punto una credibile e condivisa strategia per la ripresa dell’economia, a partire dall’utilizzo delle nuove risorse europee. Nell’insieme, l’affidamento dell’incarico di costituire un nuovo Governo è stata considerata dai principali esponenti dei partiti politici la soluzione migliore possibile.
La maggior autorevolezza del nuovo esecutivo è già stata riscontrata nel deciso cambio di marcia nella pianificazione degli interventi rivolti a contrastare la pandemia, e nel mobilitare nuove energie per riformulare in modo efficace il Pnrr per l’utilizzo delle risorse del Recovery fund. Il principale ostacolo sul percorso del nuovo Governo non è rappresentato dalla ridefinizione degli obiettivi del nuovo Piano per renderli coerenti con gli indirizzi convenuti nell’ambito delle istituzioni europee, ma dalla scarsa efficienza di un’amministrazione pubblica chiamata a veicolare in tempi rapidi un volume di risorse di tre volte superiore alla media di quelle attivate negli anni recenti, di raddoppiare i tassi annuali della crescita economica e della produttività rispetto a quelli migliori dell’ultimo decennio, di recuperare una parte significativa del divario del tasso di occupazione rispetto alla media dei Paesi dell’Ue. Condizioni obbligate per avere accesso alle nuove tranche dei finanziamenti europee, ma soprattutto indispensabili per rendere sostenibili nel medio periodo la crescita stabile dell’economia e il rientro graduale del debito pubblico.
La portata di questo disegno, le sue implicazioni per gli impegni che il nostro Paese è chiamato ad assumere per i prossimi 5 anni per l’utilizzo delle risorse, e l’esigenza di rivedere le regole del Patto di stabilità per i Paesi aderenti all’Eurozona una volta terminata la fase emergenziale, dovrebbero suggerire alle principali forze politiche di contribuire in modo attivo alla realizzazione di questi obiettivi, e a far avanzare il disegno riformatore per rendere efficace l’utilizzo delle risorse disponibili. Che comporta di conseguenza una sostanziale presa d’atto del fallimento di un’intera stagione politica e delle promesse elettorali che hanno caratterizzato la competizione tra i partiti nel corso dell’ultimo decennio.
All’opposto, i segnali provenienti dalle principali forze politiche che sostengono l’esecutivo tendono a considerarlo come una sorta di incidente di percorso legato all’assenza di un’alternativa parlamentare e alla sostanziale impossibilità di indire nuove elezioni nel corso della pandemia sanitaria.
Sul fronte del centrodestra, è assillante l’opera del capo della Lega nel caratterizzarne il ruolo di partito sindacato delle istanze delle corporazioni per rinvigorire i sostegni e i ristori, e per approfittare dell’emergenza per riproporre l’ennesimo condono fiscale. Su quello del centrosinistra, l’attenzione viene rivolta rilanciare le politiche redistributive e assistenziali, e le battaglie sui diritti civili, per rafforzare la coesione tra le variegate forze progressiste. Entrambi i fronti palesemente intenzionati a riportare il tema dell’immigrazione al centro delle polemiche.
Poco importa se questi approcci, anche se motivati per la parte dei sostegni alle imprese e al reddito delle persone dalle obiettive esigenze di contenere gli effetti negativi dei provvedimenti introdotti per contrastare la pandemia, abbiano da lungo tempo caratterizzato la deriva assistenzialista delle politiche economiche e sociali, che hanno allargato le maglie del debito pubblico e aumentato i divari negativi con le performance degli altri Paesi aderenti all’Ue. E persino aumentato i livelli della povertà nonostante l’incremento della spesa sociale di oltre 40 miliardi di euro su base annua.
Questo atteggiamento rischia di comportare effetti negativi sull’operato del Governo, introducendo elementi divisivi nella gestazione parlamentare dei provvedimenti, galvanizzati anche dalla necessità di marcare il primato dei singoli partiti all’interno delle stesse coalizioni di appartenenza.
Nel breve periodo, l’esigenza di dedicare le energie alla priorità di portare a regime il piano delle vaccinazioni e il Pnnr per l’utilizzo delle risorse europee può costituire un solido ombrello per l’attività del nuovo Esecutivo. Ma i nodi sono destinati ad arrivare al pettine quando, auspicabilmente nella seconda parte del 2021, dovranno essere fatte scelte selettive nella direzione di utilizzare le risorse distinguendo, per dirla alla Mario Draghi, tra il debito buono, gli investimenti e l’occupazione in aziende economicamente solide, e quello cattivo, identificato con quelle da destinare per mantenere in vita quelle insostenibili.
La condizione primaria diventa quella di riuscire a costruire il consenso intorno alla priorità di rigenerare il tessuto produttivo, le tecnocrazie, l’imprenditorialità e le competenze delle risorse umane, per rendere sostenibile la crescita economica e la distribuzione del reddito. Senza le quali l’auspicata transizione verso un’economia digitale, ambientalmente sostenibile e inclusiva diventa un assemblaggio inconcludente di buoni propositi.
Una condizione tutt’altro che scontata, perché nei prossimi mesi si tireranno le somme dei costi sociali della crisi in termini di imprese e lavoratori autonomi destinati a chiudere i battenti, con i relativi riflessi occupazionali, con un’ulteriore crescita della domanda di assistenza che sarà rinvigorita dall’abnorme mole degli interventi messa in campo negli ultimi 12 mesi.
È una sfida per il Governo Draghi, oserei dire, la condizione per il suo successo. Ma soprattutto diventa una sfida per le principali forze politiche che lo sostengono. Che al di là delle coreografie del populismo,sovranismo, antifascismo ed europeismo di facciata, sono da tempo accomunate nel mettere in campo le politiche che hanno accompagnato la contrazione della popolazione attiva rispetto a quella a carico di chi lavora, attribuendo a fattori esterni le ragioni della stagnazione della nostra economia e coltivando la pericolosa illusione che l’indebitamento pubblico possa crescere all’infinito. Il nostro reddito pro capite, allineato sulla media dei Paesi Ue all’inizio del terzo millennio, si ritrova distanziato di 20 punti nel giro di venti anni.
L’occasione per cambiare è propizia, la sfida è rappresentata dalla capacità di utilizzare più risorse, non di imporre sacrifici. Ma proprio per questo diventa una sorta di ultima spiaggia per rimanere nel novero dei Paesi sviluppati. Per l’evidenza dei numeri, non solo per i gloriosi trascorsi.
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