La settimana dopo il risultato delle elezioni amministrative è stata quasi tutta dedicata dai media alle analisi e ai commenti che riguardavano la mancata “apparizione” del tanto sbandierato “effetto Schlein”. È incredibile la superficialità, il pressappochismo e la faziosità con cui sui media si è fatto il bilancio di una consultazione elettorale che ha visto una netta affermazione del centrodestra grazie al ritorno alle urne, al secondo turno, dei suoi elettori nonostante la persistenza, com’era naturale aspettarsi, dell’astensione, ormai sbandierata nei dibattiti televisivi o sui giornali – che continuano a perdere copie a rotta di collo da un anno all’altro – per avvalorare una tesi di comodo.
Sono tanti gli aspetti da considerare dopo i risultati di elezioni amministrative che interessavano circa un milione e 300mila italiani. Ma almeno un paio di considerazioni sono necessarie.
Lo sfondo che viene subito in mente, quasi come un riflesso condizionato, è il titolo del libro di Piero Craveri, Dalla democrazia “incompiuta” alla “postdemocrazia”. Ed è ovviamente una sorta di incubo che caratterizza questi tempi avventurati, in Italia e a livello internazionale. Che cosa sarebbe la postdemocrazia?
È vero che ormai, dalla Svezia alla Spagna, è in atto una svolta a destra che nessuno poteva immaginare. Ma soffermandoci sul contesto italiano, ben pochi potevano prevedere che, dopo il 1992, o anche prima, nel 1989, dopo la caduta del Muro di Berlino, nel Paese occidentale dove esisteva il Bipartitismo imperfetto. Comunisti e democristiani in Italia (per citare un libro di Giorgio Galli del 1966) e rimaneva ancora determinante la cultura del partito comunista più vicino e dipendente dall’Unione Sovietica, poteva formarsi un blocco compatto di destra-centro/centro-destra, che è saldamente al potere e che trova sempre la sua compattezza elettorale, mentre a sinistra sembra che ci siano i resti di una decomposizione di ideologie storiche fallite o di nuove ideologie utopistiche, per di più contrassegnate da una litigiosità quasi incredibile.
Allora, ritornando a uno degli aspetti principali dell’attuale situazione e alle “analisi”, o meglio ai commenti a ruota libera, post-elettorali, si può dire che il cosiddetto “effetto Schlein” era solo un’operazione di marketing riuscito male, in un Paese dove la politica, sopratutto della sinistra, è stata massacrata: per primo con l’aiuto, quasi involontario, di tanti poteri (si pensi alla magistratura) e al “gioco sporco”, invece volontario, della finanza mondiale, con l’appendice comica (ma solo a metà) di quella italiana (che voleva solo la scomparsa della politica); ma per secondo anche per una miopia storica che fa letteralmente impressione.
Facciamo un poco di storia degli ultimi anni. Il Pd, il Partito democratico, che doveva costituire l’asse principale e maggioritario della nuova politica italiana, è nato con questo nome il 14 ottobre 2007, a un anno dalla più grave crisi finanziaria mondiale dal 1929, quella del 2008. I tre fondatori principali furono, tra gli altri: Enrico Letta, Pier Luigi Bersani, Romano Prodi.
Il Pd chiudeva in quel modo l’elenco delle più svariate sigle floreali (querce, margherite, ulivi) che avevano seguito l’elenco più cacofonico di altre sigle che ereditavano il percorso storico dei democristiani di sinistra e dei comunisti, che si erano trasformati prima in post-comunisti poi in Partito democratico della sinistra (Pds), che per tutti gli anni della cosiddetta e mai esistita “seconda repubblica” non ha mai avuto facile, con il peso del berlusconismo e del ricorso ai governi tecnici.
Dal 14 ottobre 2007, il Pd ha avuto come segretari Walter Veltroni, Dario Franceschini, Pier Luigi Bersani, Guglielmo Epifani, Matteo Renzi, Matteo Orfini, poi di nuovo Matteo Renzi, Maurizio Martina, Nicola Zingaretti, Enrico Letta e infine, dopo mesi di “profondi pensieri e meditazioni” e primarie di partito, smentite da primarie allargate, la non iscritta “salvatrice” Elly Schlein.
Un “plotone” di segretari che non hanno garantito stabilità, a giudicare dalla frequenza delle successioni. Forse gli iscritti al Pd si sono ispirati a James Madison, un padre della Costituzione americana, che sosteneva che se qualcuno restava al potere per più di un anno si profilava un rischio di autoritarismo. C’è da dubitare che il Pd abbia pensato a Madison, ma piuttosto non sia riuscito a raccapezzarsi nella nuova politica italiana e internazionale, dove il comunismo è parificato al fascismo e al nazismo (mozione al Parlamento europeo e una valanga di libri e documenti piuttosto trascurati a via del Nazareno) e, con il post-comunismo e il resto, non abbia mai trovato in questi anni, pur con tanti segretari, una visione sociale moderna efficace, magari anche una ideologia che, come sostiene persino Fausto Bertinotti, superi lo stesso Karl Marx. Spietato, Bertinotti quando scandisce “la sinistra non esiste più”. E, giustamente configura un dramma per una corretta dialettica democratica.
L’unico termine che è stato sdoganato in questi anni dalla galassia post-comunista è quello di “riformista”. Ma anche questo è un fatto incredibile. Per gli orfani dell’Urss e per i loro amici, il “riformista” non doveva rappresentare nessun riferimento di rinnovamento e cambiamento in base all’articolo 21 del Komintern leninista. Fu lo stesso Lenin che aveva chiesto a Rinaldo Rigola, il fondatore della Camera del Lavoro di Milano: “Fate fuori Turati” e lo avrebbe chiesto anche per la Kuliscioff, per Treves, per Matteotti, per Bissolati, per tutti riformisti italiani, la cui storia è del tutto ignorata nel Belpaese.
Tanto per fare due esempi: quando Bettino Craxi cambiò il nome della corrente autonomista in “riformista” al Congresso del Psi di Palermo nel 1980, fu fischiato dai manciniani e dai demartiniani del suo partito; c’è dell’altro, perché quando Giorgio Amendola, nel 1961 e poi il 17 ottobre 1964, propose un partito unico della sinistra con un tratto riformista, fu liquidato prima dal “Migliore”, Palmiro Togliatti, poi dalla stesso Enrico Berlinguer nel comitato centrale del 1979. Il partito unico di Amendola fu definito con disprezzo dallo psiuppino Lelio Basso “il partitone americano di Amendola”.
Adesso, forse per qualche miracolo, si definiscono tutti “riformisti”, persino la Schlein, anche se vuole spostarsi più a sinistra, con un linguaggio piuttosto tortuoso e con risultati piuttosto controversi.
Probabilmente dopo la caduta e l’implosione dell’Urss è meglio definirsi “riformisti” anche controvoglia per motivi elettorali. Ma si diventa scarsamente credibili. Di fatto, quella parola “riformista” segna la prima sconfitta storica, senza appello, dei seguaci di tutti i tipi di ispirazione leninista. E anche se lo stesso riformismo deve essere aggiornato.
È vero poi che nell’attuale Pd militano anche i seguaci della sinistra democristiana, che non si è mai compreso a quali valori e a quali visioni si ispirassero, anche se hanno sempre fatto finta di riferirsi ad Aldo Moro, in modo talmente confuso che alla fine vengono sempre in mente i giudizi dei futuri dirigenti cattolici del Pd sulla tragedia di Moro. Quando Moro scriveva dal carcere delle Brigate rosse le sue lettere in cui chiedeva di essere salvato attraverso una trattativa, esse venivano giudicate “non moralmente ascrivibili a Moro” da questi futuri dirigenti del Pd. Una pagina che un grande scrittore come Leonardo Sciascia definì più volte “vergognosa”.
Comunque, a parte i riferimenti storici imbarazzanti anche per i leader del Pd, non solo per la destra di derivazione missina, c’è da aggiungere una seconda considerazione.
Nel momento in cui, tra riferimenti storici e spesso simpatie per i grandi finanzieri mondiali (George Soros per esempio), oltre a essere nemici soprattutto di Mediobanca e a lodare i libri di Giavazzi e Alesina come Il liberismo è di sinistra, i dirigenti del Pd non riescono a trovare una via d’uscita, per il momento, al consolidamento della destra e si impegnano su una versione storica della Resistenza che li vede da soli come protagonisti. A questo punto ecco un altro libro che dovrebbero leggere, La resistenza cancellata di Ugo Finetti, dove in copertina le facce di Ferruccio Parri e di Enrico Mattei vengono stampate con una “x” che li relega come comprimari che non contano nulla.
Torniamo al momento attuale. Visti i risultati elettorali del 25 settembre del 2022, la crisi si è acuita, Letta ha abbandonato la tolda di comando e si è cominciato a discutere di una nuova visione politica da costruire. Inoltre, senza congressi preparati, senza tesi discusse, con la globalizzazione che è stata dichiarata morta dagli americani che l’avevano creata, quasi suicidandosi, e con i problemi del futuro alle porte, al Pd hanno pensato bene di fare prima primarie interne, dove ha vinto Stefano Bonaccini, poi primarie allargate agli elettori dove, a sorpresa, per 80mila voti su oltre un milione di partecipanti ha vinto Elly Schlein, “la salvatrice”, la rappresentante del “nuovo popolo” al potere, della “comunità di sinistra”, che evidentemente copia anche lei i modelli americani, in questo caso quello delle primarie a tutto campo.
Quindi ecco l’avvento atteso e prima acclamato, ora criticato, dell’“effetto Schlein”, la vittoria della destra, l’opposizione divisa, lo stesso Pd lasciato da alcuni personaggi e con una situazione interna di conflitti. Sembra di ricordare gli annunci della “gloriosa macchina da guerra” di Achille Occhetto, perdente contro Silvio Berlusconi. In più, l’augurio di molti dirigenti che ribadiscono “prepariamoci alle europee e speriamo che non si voti per un anno”.
Che significa tutto questo, di fronte a una destra che si rafforza sempre di più? Significa che dopo la caduta del comunismo e la prima sconfitta contro il “riformismo” è arrivata la seconda sconfitta per il post-comunismo italiano, che mantiene le vie dedicate a Togliatti e onora Lenin con qualche statua.
A questo punto qual è il timore attuale maggiore? Con un governo di destra talmente compatto, nonostante i titoli a sorpresa di Repubblica (dopo il primo turno delle amministrative, a tutta pagina spiegava che “L’onda di destra si è fermata”), c’è da augurarsi che Angelo Tasca, uno dei fondatori del Pci, non abbia adesso – dopo cento anni – ancora ragione quando nel suo libro Nascita e avvento del fascismo attribuiva a gran parte degli errori della sinistra l’avvento al potere di Mussolini.
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