L’unica certezza post-elezioni regionali è che di elezioni non si riparlerà quantomeno sino al febbraio 2022, quando si eleggerà il successore di Mattarella, se non sino al 2023, fine naturale di questa strana legislatura. Poi che il Governo sia realmente più forte è cosa tutta da dimostrare.
Sono profondamente cambiati, infatti, i pesi specifici all’interno della maggioranza. In Parlamento i 5 Stelle rimangono di gran lunga il primo partito, ma nelle regioni la batosta è stata clamorosa. Solo in Puglia hanno avuto un risultato superiore al 10%, al nord sono praticamente evaporati. Il 15-16% attribuito dai sondaggi a livello nazionale sembra destinato a essere ridimensionato a breve. Se non fosse passato il referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari saremmo al “si salvi chi può”. Nondimeno all’indomani del voto è partita la resa dei conti interna, all’affannosa ricerca di una leadership oggi congelata nelle mani dei grigio reggente Vito Crimi.
Un Movimento così tanto ridimensionato non potrà opporre la stessa resistenza di prima alle richieste degli alleati democratici, usciti rafforzati dal voto, soprattutto per avere salvato la faccia in Toscana. Che la musica stia cambiando si è visto subito dalle richieste di onorare le intese sulla riforma della legge elettorale. Ancor di più pesano gli annunci venuti da palazzo Chigi che “Quota 100” non verrà rinnovata al termine della sperimentazione, mentre nel prossimo consiglio dei Ministri si discuterà dei provvedimenti destinati a superare i “decreti sicurezza” di salviniana memoria. Gongola il Pd, mentre Di Maio e i suoi rischiano di perderci la faccia, perché quei provvedimenti li hanno votati all’epoca del governo giallo-verde. Erano le bandiera della Lega, ma ammettere che votarli fu un errore costituisce in sé una evidente sconfitta politica.
In queste condizioni, con un Pd che detta la linea, e con un Premier che sembra intenzionato a metterla in pratica, la navigazione dell’esecutivo non si preannuncia affatto facile. C’è da scrivere il piano nazionale per usufruire dei fondi destinati all’Italia attraverso il Recovery fund europeo, ma ancor prima c’è la pressione che viene dalle regioni a guida democratica per accedere al più presto al Mes, per irrobustire il nostro sistema sanitario. Di fronte alla recrudescenza della pandemia la richiesta diventa ogni giorno più difficile da respingere per i grillini, che finora hanno opposto un no preconcetto.
Per Conte sarà la sfida più insidiosa. E la tattica del rinvio più volte dosata con astuzia (ultimo il caso Autostrade) potrebbe rivelarsi meno efficace dei mesi passati. Basta un nonnulla a far saltar tutto, ad esempio nel corso della sessione di bilancio che si aprirà fra poche settimane. Archiviata l’idea del rimpasto, strada troppo pericolosa, Conte sa che ogni giorno lotterà per sopravvivere. E per farlo dovrà evitare che uno dei due alleati maggiori abbia troppo spazio rispetto all’altro. Altrimenti una soluzione alternativa, nell’ambito della stessa maggioranza, potrebbe essere trovata.
Ancora una volta toccherà al presidente Mattarella agire da equilibratore del sistema, dosando il bastone e la carota, il pungolo e il sostegno all’esecutivo. Questa settimana per due volte ha supplito alle evidenti carenze di un ministro degli Esteri impegnato in altro, criticando le repressioni in Bielorussia e soprattutto replicando con sagacia democristiana alle sgangherate uscite del Premier inglese Boris Johnson. Su altre partite, come il riavvio della scuola, il Capo dello Stato non ha potuto fare altro che puntellare una ministra traballante come l’Azzolina, perché attaccare su quel terreno avrebbe avuto un effetto deflagrante.
Mattarella ha ancora davanti a sé 17 mesi di mandato, e naturalmente la sua influenza andrà scemando man mano che ci si avvicinerà alla conclusione. Ma lo snodo dei prossimi mesi sarà soprattutto al Quirinale, che costituisce anche il più autorevole interlocutore che gli altri Paesi incontrano in Italia. Il colloquio con il Presidente tedesco Steinmeier dieci giorni fa a Milano e gli stretti rapporti con Macron sono la punta dell’iceberg della “diplomazia del Colle”, che spesso avviene lontano dai riflettori. Anticipare troppo il dibattito su chi debba succedergli al Quirinale sarebbe un danno per il Paese.