Il Governo ha compiuto un anno e si trova in un vicolo cieco. Le peggiori notizie vengono senza dubbio dall’economia. L’alleanza giallo-verde aveva promesso crescita costi quel che costi, meno tasse, più pensioni, reddito di cittadinanza. Un anno fa il prodotto lordo aveva cominciato già a rallentare, ma si pensava potesse restare attorno a un punto percentuale in più; oggi è piatto, siamo in stagnazione, il primo trimestre, dice l’Istat si chiude con lo -0,1% (sic!) su base annua. Lo spread è salito a 290 punti base. La pressione fiscale è leggermente aumentata e non c’è stato il promesso taglio delle tasse. Le poche risorse disponibili sono state utilizzate per il reddito di cittadinanza e le pensioni a quota 100.



Il ministro dell’Economia Giovanni Tria dice che si spenderà meno del previsto e lo ha scritto nella lettera inviata alla Commissione europea. Il Governo già litiga su come utilizzare questo “tesoretto”. In realtà è la dimostrazione di un doppio quanto clamoroso flop. L’uscita anticipata dal lavoro non apre nuovi posti di lavoro, l’ultimo esempio viene da Banca Intesa dove il tasso di sostituzione è di uno a dieci, cioè dieci bancari se ne vanno e uno viene assunto per rimpiazzarli, perché evidentemente la Lega (fautrice della proposta che doveva seppellire la Fornero) ha sottovalutato due fattori: il rallentamento della crescita e l’innovazione tecnologica (in banca per esempio stanno scomparendo le filiali e l’Italia, pur arretrata nei confronti degli altri paesi, sta espandendo i servizi online). Quanto al reddito di cittadinanza, non va ai giovani in cerca di lavoro, ma a fasce marginali per lo più anziane, inoltre la giusta esigenza di far emergere il nero allontana molti lavoratori precari.



L’unica vera somiglianza con l’anno scorso è il ripetersi della commedia degli equivoci con l’Unione Europea. Il copione è sempre lo stesso: Bruxelles manda una lettera per rimproverare lo scostamento dalle promesse e dagli obiettivi in merito al bilancio e al debito pubblico. Roma risponde che è vero, ma si tratta di scostamenti “non significativi” e in ogni caso l’anno prossimo andrà meglio, l’Italia si metterà in riga, senza far scattare le clausole di salvaguardia, cioè un aumento delle imposte indirette per un ammontare pari all’1,3% del prodotto lordo. E come avverrà il miracolo? Scrive Tria nella sua lettera di risposta: “Il Governo sta elaborando un programma complessivo di revisione della spesa corrente compatibile e delle entrate, anche non tributarie”. Mercoledì vedremo se Tria avrà convinto i commissari Dombrovskis e Moscovici. Intanto, sull’aggettivo “compatibile” e sulla congiunzione “anche” sembra sia scoppiata l’ultima delle bufere che stanno segnando ormai da tempo la vita del Governo.



Secondo alcune ricostruzioni, Tria avrebbe voluto aprire la porta a una riduzione della spesa e ad alcuni aumenti delle imposte (da tempo dice che preferisce far scattare alcune aliquote Iva con le quali compensare in parte una riduzione dell’Irpef in forma piatta o rotonda poco importa). Apriti cielo, è cominciata la levata di scudi da una parte contro i tagli allo stato sociale e ai servizi e dall’altra contro ogni incremento delle entrate tributarie. Il Movimento 5 Stelle ha accusato Tria di aver agito insieme a Salvini, il capo della Lega sposta il bersaglio sull’Unione Europea (tanto per cambiare). C’è chi pensa che in realtà nella Lega, incassato il successo elettorale, si sia fatta strada l’idea di gestire la vittoria da forza di governo, senza cedere ai diktat degli eurocrati, ma tenendo conto delle compatibilità e del giudizio dei mercati. I pentastellati, dopo la sconfitta, hanno cambiato di nuovo spalla al fucile e se prima erano loro a volersi mostrare responsabili, adesso innalzano la bandiera degli “amici del popolo”. Sembra il gioco dei quattro cantoni, ciascuno corre a occupare la casella dell’altro, finché non c’è chi resta spiazzato. La domanda a questo punto è chi. E la politica economica lascia il posto alla politica tout court.

Chiunque non voglia rinunciare al buon senso si rende conto che così non può andare avanti. Prima delle elezioni si diceva: è tutta propaganda, vedrete che dopo il voto le cose cambieranno. Il fatto è che stanno cambiando forse in peggio. Perché la rivalità personale e di partito nasconde una divergenza di fondo su dove andare e come gestire il Paese. La contraddizione tra Lega e M5s è profonda e sembra insanabile. Nemmeno il potere ormai rappresenta un collante abbastanza forte per tenere insieme due formazioni politiche intrinsecamente contraddittorie. Non tanto perché passa tra loro la storica distinzione tra destra e sinistra, ma semmai perché il contrasto tra populismo e nazionalismo in apparenza sfumato sul piano astratto diventa molto forte dal lato degli interessi materiali.

Un elettorato mobile e instabile proprio perché meno legato di prima da barriere ideologiche, si sposta in funzione di quel che viene promesso e realizzato. Lo dimostra anche il passaggio repentino del Mezzogiorno dai 5 Stelle alla Lega che può ancora contare sul blocco sociale del Nord, a cominciare dallo storico “popolo delle partite Iva”, malmostoso per quel che non ha ancora ottenuto (la riduzione fiscale), ma allarmato dalla barriera dei no che i pentastellati oppongono a ogni misura capace di aumentare i posti di lavoro e sostenere la crescita. La surreale vicenda della Tav sta lì a dimostrarlo.

A questo punto, dunque, non sarebbe meglio un chiarimento di fondo con nuove elezioni politiche? È vero che darebbe l’immagine di un’Italia tornata in piena instabilità politica, ma sarebbe sempre meglio di questa incertezza strisciante. Se poi venisse fuori una maggioranza chiara (di centro-destra a giudicare dai numeri) il nuovo Governo avrebbe davanti a sé il tempo necessario per riformare le imposte in modo sistemico (come ha chiesto il governatore della Banca d’Italia) e assorbire l’impatto della “spallata fiscale”. Di questo si sta ragionando a Bruxelles (tra l’altro con i giallo-verdi così divisi non si vede come l’Italia possa ottenere posizioni di rilievo nella Commissione e nel nuovo Parlamento europeo), ma anche sui mercati e nelle società di rating. Può darsi che una nuova campagna elettorale faccia salire ancora lo spread, ma come si vede le tensioni finanziarie non sono affatto finite dopo il voto europeo.