Nel mix di fonti di energia alternativa spinto dalla combinazione tra sostituzione dell’importazione di combustibili fossili e pressione de-carbonizzante, chi scrive trova più interessante la produzione di idrogeno verde dalla fermentazione di rifiuti organici sia agricoli sia urbani perché promette un beneficio multiplo: in generale, trasforma il rifiuto da costo in risorsa energetica via processi con zero emissioni; in particolare, permette al settore agricolo di trasformarsi in energetico (in parte già avvenuto) dandogli un potenziale di maggiore profitto economico.
In sintesi, l’evoluzione dell’economia circolare trova nella trasformazione dei rifiuti organici in biogas da cui ricavare o metano o idrogeno verde un massimo di potenziale economico. Ma, stranamente, tale concetto non sta trovando sufficienti spinte. Comuni e Regioni in Italia buttano ancora spazzatura fermentabile in discariche, la esportano pagando costi enormi (invece di incassare proventi come fornitori di materia energetica) o la bruciano con mezzi termovalorizzanti di minore efficienza e maggiore rischio contaminante.
I motivi di questa arretratezza sono dovuti a inerzia dovuta a investimenti già fatti in altre tecniche o flussi finanziari opachi oppure, banalmente, a poca attenzione alle nuove tecnologie? Chi scrive può solo annotare che ora c’è una tecnologia, in buona parte finanziata da circa 20 anni di programmi europei di ricerca precompetitiva, pronta per applicazioni: a) un rifiuto organico, eventualmente pretrattato, viene immesso in un digestore anaerobico (si pensi a un grande tendone chiuso) dove il materiale organico stesso fermenta producendo biogas; b) da questo biogas si può produrre metano (tecnica già nota e applicata nei digestori agricoli) oppure idrogeno classificato come “verde” attraverso una filtrazione del biogas stesso via membrane (dove la ricerca ha trovato un modo per portare l’efficienza dal 40% al 70%); c) l’idrogeno prodotto può essere immesso in bombole per la mobilità elettrica (alimenta cellule a combustibile che poi spingono un motore elettrico), veicolato in sistemi termici innovativi nelle aziende vicine ai luoghi di produzione (ora c’è un incentivo Pnrr per produrre idrogeno in aree dismesse), integrato nella rete gas, immagazzinato per poi rilasciare elettricità nei momenti di picco di una centrale, combinato con un veicolo chimico per l’eventuale produzione di fertilizzanti, ecc.
Uno potrebbe chiedersi perché un economista, tra l’altro con specializzazione macro, si ingaggi nello studio della chimica. La risposta è semplice: l’analisi economica deve darsi i mezzi per capire le opzioni più efficienti ed efficaci in un momento di discontinuità e transizione della produzione di energia. L’idrogeno è un’opzione vincente. Ma lo si può fare anche via elettrolisi alimentata da pannelli solari? Certo, ma la produttività di questa opzione è correlata all’irradiazione solare e deve scontare il rischio di poca o interrotta produzione, così come l’energia elettrica da eolico la non continuità del vento o quella idroelettrica esposta a momenti di siccità dei bacini, mentre l’idrogeno da fermentazione del rifiuto organico ha caratteristiche di costanza. Pertanto si deve pensare a un mix di modi di produzione via elettrolisi, a seconda dei luoghi, che viene stabilizzato dall’ampliamento diffuso di quello via biogas da fermentazione.
Segnalazione: deve aprirsi rapidamente una stagione di calcoli e prototipi (tra l’altro già applicati nel settore del biogas da rifiuto da aziende italiane, prime in Europa) di impiego dell’idrogeno (verde e non “scuro”) dove il territorio che li fa per primo avrà un vantaggio di blasone innovativo e pulito e di sorprendente efficienza economica.
www.carlopelanda.com
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