Nei primi giorni della settimana, probabilmente martedì, il governo intende varare un decreto per tamponare la nuova impennata del prezzo del gas che è arrivato a 339 euro a megawattora. Intanto il ministro Roberto Cingolani dovrebbe presentare un piano risparmi che prevede, secondo le indiscrezioni, restrizioni ai riscaldamenti (orari e limiti di temperatura), illuminazioni ridotte nei palazzi pubblici e nelle città, misure volte a privilegiare i consumi delle imprese.



Non è in vista per ora nessun razionamento, continua ad aumentare lo stoccaggio che ha superato l’80%, mentre le forniture da parte di Gazprom si sono ridotte, ma non interrotte.

La situazione, dunque, è seria, non disperata, sperando che la campagna elettorale e il susseguirsi di messaggi allarmistici e spesso fuorvianti non la renda disperata, ma non seria, per parafrasare una nota battuta di Ennio Flaiano. Il governo in queste ultime quattro settimane dalle elezioni si rimbocca le maniche, però non ha molti margini di manovra. Da parte delle forze politiche si rincorrono proposte per lo più irrealistiche: stanziare 30 e più miliardi di euro, imporre unilateralmente un tetto al prezzo, nazionalizzare tutto anche se le imprese energetiche sono quasi tutte già controllate dallo Stato.



C’è, in primo luogo, un problema di risorse. Mario Draghi ha scelto di procedere passo dopo passo, facendo attenzione a non sforare i limiti all’indebitamento già decisi. È stato aiutato dalle entrate aggiuntive, dovute a una crescita superiore al previsto, un tesoretto che si è ormai assottigliato. Il decreto del mese scorso ha stanziato 17 miliardi di euro. Sembra che, rispettando i parametri, ci sia a disposizione un’altra decina di miliardi e si sentono già i lamenti delle imprese e delle famiglie di fronte al caro bollette. Il prossimo mese dovranno essere pronti i decreti attuativi del disegno di legge che consente al Gse, il Gestore dei servizi energetici, di acquistare gas per rivenderlo a prezzi calmierati alle piccole e medie imprese e ai settori energivori, e di ritirare energia prodotta con fonti rinnovabili per cederla a tariffe ridotte. Primi passetti per disancorare i prezzi di luce e gas? Quanto al tetto nazionale, ammesso che sia possibile senza provocare distorsioni del mercato tali da peggiorare la situazione, il costo per le finanze pubbliche sarebbe elevato: circa 19 miliardi l’anno bloccando il prezzo a 200 euro.



Si dice facciamo come in Spagna (un tetto fissato a 40 euro), ma là ci sono sei rigassificatori, il Paese è meno dipendente dalla Russia e le sue interconnessioni con il resto del continente sono abbastanza limitate. La penisola iberica non è in grado di provocare distorsioni rilevanti al mercato comune dell’energia, al contrario dell’Italia. “O lo fa tutta l’Europa, oppure rischieremmo di rimanere isolati, visto che noi siamo interconnessi”, ha detto il ministro Cingolani.

Si punta molto su un price cap europeo e ci spera in particolare il Pd di Enrico Letta. Il prossimo 7 settembre dovrebbe esserci una prima riunione a Bruxelles dei ministri dell’Energia, ma sarà difficile superare l’opposizione dell’Olanda e le resistenze della Germania, a meno che Mosca non decida davvero di interrompere le forniture, una scelta che sarebbe però autolesionista. Vladimir Putin sta usando il ricatto del gas, ma gioca come il gatto con il topo, se volesse ingoiare la sua preda resterebbe egli stesso soffocato. Senza contare l’effetto boomerang: il metano, di fronte a un prezzo fissato per legge, potrebbe trovare altri compratori nel mondo, in Giappone, Corea o Cina, riducendo così anche i flussi diretti verso l’Europa. È già accaduto nei mesi scorsi per il gas liquefatto proveniente dall’America.

Sarebbe diverso se la Ue decidesse di agire nei confronti del mercato energetico come la Bce verso i mercati finanziari a difesa dell’euro. Non esiste una banca del gas e non esiste un piano energetico europeo, ma questo è il momento di metterlo all’ordine del giorno. C’è un’emergenza strutturale che minaccia la sicurezza dell’intero continente. La pandemia ha spinto l’Unione a mutualizzare il debito contratto sui mercati per uscire dalla recessione e impostare la “grande transizione”. In quel processo è compreso anche l’abbandono delle fonti fossili a favore di quelle rinnovabili. La guerra in Ucraina ha cambiato le regole di un gioco che non può più essere lasciato a se stesso.

Se entra sul mercato un nuovo soggetto che opera come acquirente di ultima istanza può impedire la speculazione, riportare alla normalità l’incontro tra domanda e offerta, stabilizzare l’utilizzo di idrocarburi mentre si compie (si vedrà in che tempi e a quali ritmi) il passaggio all’energia “verde”. La banca del gas potrebbe contrastare non solo l’uso politico che ne fa la Russia, ma anche le pratiche monopolistiche di altri fornitori.

È una fuga in avanti? Non lo fu dieci anni fa anche il “whatever it takes” di Draghi, al quale seguì una svolta della politica monetaria e la nascita del fondo salva-Stati? Lo è per molti versi il Next Generation Eu che rischia di fallire se non si affronta insieme anche questa triplice crisi: energetica, inflazionistica, militare.

Cosa ne dicono i partiti che si contendono il consenso degli elettori, per ora con molte parole e pochi fatti?

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