Dice Corrado Passera, manager, banchiere, ex ministro: “La politica economica non ha compiuto il salto promesso dal sussidio al rilancio per il quale occorrono investimenti, pubblici e ancor più privati; non liquidità soltanto, ma robusti innesti di capitale”. Dice Marco Tronchetti Provera, amministratore delegato della Pirelli: “Se scriviamo centinaia di pagine per replicare l’Italia di ieri corriamo un rischio enorme e l’Italia di ieri era quella che cresceva meno di tutti gli altri”. Dice Giuseppe De Rita, fondatore del Censis: “La ripartenza non si fa con le sovvenzioni ad personam. Ma è frutto di un processo socio economico complesso che rimetta in moto filiere produttive, gruppi di imprese e territori. Se i cittadini non hanno fiducia e non escono di casa, se non arrivano i turisti, i ristoranti restano chiusi anche se gli si dà il bonus per riaprire”.
Personaggi diversi tra loro che hanno parlato su giornali ancor più diversi come, rispettivamente Il Foglio, la Repubblica, la Verità. Colpisce che il filo conduttore sia comune: così non va, il Governo ha imboccato la strada sbagliata per affrontare la fase due e, soprattutto, la ripresa. Le notizie degli ultimi giorni sul boom di cassa integrazione lo confermano. Il decreto rilancio è un provvedimento marmellata privo di centro di gravità, senza punto d’appoggio né leva per far muovere il Paese. Mentre escono allo scoperto tre ostacoli, anzi tre macigni per rimuovere i quali ci vorrebbe una strategia che non c’è.
Prendiamo l’ultima baruffa, quella sulla società Autostrade, scatenata dai cinquestelle i quali vogliono espropriare il gruppo Benetton. Il casus belli riguarda la richiesta di un prestito garantito dalla Sace per circa un miliardo di euro. Il decreto trasformato in legge consente di accedervi a chiunque ne abbia i requisiti, sta poi alle banche che debbono erogarlo con garanzia pubblica dell’80% stabilire se il debitore è solvibile o no. La legge vale per tutti? Non per il gruppo Benetton perché responsabile del crollo del ponte Morandi. Sentenza emessa sulla pubblica piazza dai pentastellati. Autostrade ha bloccato il piano di investimenti, il braccio di ferro politico si sposta anche sul piano legale. I Benetton ormai si sono convinti che siamo agli sgoccioli.
La legge non dovrebbe valere nemmeno per la Fiat Chrysler. Il prestito di 6,3 miliardi di euro viene negoziato con la banca Intesa Sanpaolo per la controllata italiana che impiega 35 mila dipendenti, produce in Italia dove è la prima impresa manifatturiera privata con un fatturato di 27,7 miliardi; la Fca del resto è quotata alla borsa di Milano. L’obiezione è che è incorporata in Olanda, dunque bisogna fare un’eccezione alla regola appena approvata. Teniamo conto che il decreto impone già vincoli da rispettare come il divieto di distribuire dividendi quest’anno; possono diventare ancor più stringenti varando un’altra legge, ma la questione centrale è la tutela dei posti di lavoro o la sede legale? Quando la Fca crolla, a chi interessa se gli uffici sono in Olanda quando le fabbriche chiuse stanno in Italia? Quanto ai famigerati 5,5 miliardi che l’anno prossimo dovrebbero essere generati dalla fusione con la Peugeot, non sono utili da dividere, ma una distribuzione del capitale agli azionisti in base al calcolo del valore dei conferimenti da parte dei due gruppi. Si vuole bloccare la fusione? Il Governo italiano deve entrare come azionista? Si intende nazionalizzare la Fiat? Auguri, ma non si possono prendere lucciole per lanterne.
E tanti auguri anche per l’Ilva. A Taranto lo psicodramma si sta tramutando in tragedia. Domani c’è l’incontro del Governo con l’azienda. La crisi ha colpito duramente, ma soprattutto è sempre più chiara l’insofferenza di ArcelorMittal. La data finale per chiudere l’accordo e trasformare il prestito in acquisto è novembre, tuttavia ci sono segnali che il gruppo anglo-indiano ha perso la fiducia nel Governo italiano, nelle forze politiche che lo compongono, nelle autorità locali, nella magistratura, in parte dei dei sindacati, insomma in un blocco vasto che non li ha mai davvero accettati e stapperebbe champagne se mollassero. A quel punto, però, che succede? Chi lo può dire? Si capisce solo che giunti al momento chiave, quel blocco compatto contro Arcelor diventa il vestito di Arlecchino.
Qualcuno vuole il ritorno dell’acciaio di Stato, altri un piano produttivo che trasformi il centro siderurgico in una acciaieria più piccola, con forni elettrici, chiedendo di partecipare agli industriali italiani che non se la sentono di gestire un colosso come quello tarantino. È il ritorno della cordata tricolore, invocata anche per salvare le acciaierie di Terni (producono acciai speciali) messe in vendita dai tedeschi di ThyssenKrupp. E se non quaglia, rinasce la Finsider con Taranto, Terni e a questo punto anche Genova? E poi ci sono quelli che l’acciaio non lo vogliono, punto. Quelli che l’Ilva deve chiudere, al suo posto deve nascere un impianto turistico, perché la Puglia è la Florida del Mediterraneo e via via inseguendo la decrescita tutt’altro che felice. I seguaci di questa linea stanno non solo in Puglia, ma a Roma, in Parlamento e nel Governo.
Curioso che obiezioni, distinguo, battaglie politiche e ostacoli legali non vengano nemmeno lontanamente sfiorati quando si tratta dell’Alitalia. Nel decreto cosiddetto rilancio ci sono ben 3 miliardi di euro e si tratta non di prestiti, ma di stanziamenti a fondo perduto, o meglio è la dote per la nuova società che sta per nascere e per la quale si cerca un amministratore delegato. Si era parlato di Alfredo Altavilla, ex Fiat, però non piace alla maggior parte del Governo. Il problema, anche qui, non è tanto di poltrone, ma di scelte. Viene fondata una newco, come si dice, francamente non si capisce per fare che. Deve salvare un marchio, una vecchia bandiera gettata nella polvere o ricostruire una compagnia in grado di funzionare senza distruggere il denaro dei contribuenti? E come, con quali mezzi, con quali uomini, su quali tratte? Nebbia fitta.
Questo salvataggio è fondamentalmente ideologico così lo scontro con la Fca, con Benetton e con ArcelorMittal, e tutto ciò diventa ancor più pericoloso perché dietro non c’è alcuna strategia di politica industriale.