Mentre il grande circo mediatico s’accapiglia sulla sorte di bagnini e parrucchieri (con tutto il rispetto per i loro drammi), nelle pagine interne dei giornali viene pubblicata senza molto rilievo la notizia che FCA (Fiat Chrysler Automobiles) sta negoziando con Intesa Sanpaolo un prestito di 6,3 miliardi di euro garantito dalla Sace e in ultima istanza dal Governo. Si tratta del 5% del pacchetto di 170 miliardi di euro per le imprese messi a disposizione dal decreto di marzo. FCA Italia ha un fatturato di quasi 30 miliardi di euro ai valori del 2019 naturalmente ed è il primo gruppo manifatturiero privato in Italia dove ha sede. Le vendite a marzo sono crollate dell’86% e ad aprile del 98%. La notizia ha già suscitato polemiche, ma non il necessario allarme, eppure rispecchia la crisi che colpisce il motore produttivo del Paese.
Il Corriere della Sera pubblica nella stessa pagina 35 l’annuncio che Arcelor Mittal, il primo gruppo siderurgico in Italia, ha messo in cassa integrazione altre mille lavoratori nell’impianto di Taranto. La pagina si apre con i dati sulla produzione industriale: -25% a marzo; tessile, abbigliamento e mezzi di trasporto sono i settori più colpiti.
Era già aperta prima della pandemia una grande questione industriale, adesso siamo all’allarme rosso. E il decreto slittato a maggio non fa abbastanza per affrontare l’emergenza, figuriamoci il rilancio. Alcuni commentatori, tra i quali Carlo Cottarelli, hanno sottolineato che il provvedimento appena varato sarebbe andato bene ad aprile, ma con un mese di ritardo ci voleva altro. Dunque, ci sarà bisogno di un’altra manovra alla quale affidare il vero rilancio. Il problema è che “il deficit pubblico del Def del 10,5% del Pil comprende questa manovra ma non ne comprende un’eventuale altra che sarebbe invece necessaria per un rilancio vero dell’economia. Per esempio con gli investimenti pubblici”, sottolinea l’ex commissario alla spending review (e presidente del Consiglio incaricato per soli tre giorni) che ora dirige l’Osservatorio sui conti pubblici presso l’Università Cattolica di Milano. In sostanza, siamo in trappola.
Le risorse non saranno sufficienti per sostenere il vero rilancio, quindi si porrà in modo acuto l’esigenza di ricorrere all’Unione Europea, cioè al Mes, il meccanismo salva stati che esiste già, perché il Recovery Fund è di là da venire. A quel punto la tenuta della maggioranza sarà sottoposta alla prova finale. La Lega e Fratelli d’Italia non vogliono, ma non lo vuole nemmeno il M5s, mentre il presidente del Consiglio dice che non ce n’è bisogno e si copre dietro la Francia: se lo chiede Emmanuel Macron allora si farà avanti anche Giuseppe Conte. Et voilà.
Nel mega decreto appena varato, ma non ancora pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, che cosa c’è per far fronte alla questione cruciale, cioè quella dell’industria e della ripresa produttiva? Difficile districarsi nelle 400 e più pagine. Jean-Baptiste Colbert, il potente ministro del Re Sole, diceva che un decreto per essere efficace non deve avere più di tre articoli e lui se ne intendeva, visto che governava solo con i decreti. Se è così, allora quello varato dal Governo non dovrebbe brillare per efficacia.
A una prima lettura dei voluminosi allegati, appare chiaro che c’è qualcosa per tutti e non accontenta nessuno. Ci sono 55 miliardi in deficit e altre cento come garanzie. Nel loro insieme 130 miliardi sono destinati alle imprese, 4 miliardi affinché non paghino la prima rata dell’Irap; 1,6 miliardi per prorogare la cassa integrazione; 6,2 miliardi in aiuti a fondo perduto per le piccole e medie imprese; 12 miliardi per i pagamenti arretrati della Pubblica amministrazione e una serie di altre misure calibrate per dimensioni aziendali. Non basta? Forse, ma non è vero quel che dice la cosiddetta “nuova teoria monetaria” che affascina l’estrema sinistra e l’estrema destra: né i governi, né le banche centrali posseggono la cornucopia.
Quantità a parte, i limiti principali riguardano la qualità degli interventi e soprattutto i loro tempi. Le misure dovranno passare attraverso i meandri della Pubblica amministrazione e abbiamo già visto che cosa è accaduto con il decreto di marzo. I ritardi sono scontati, e siccome la rapidità è il fattore chiave in una crisi acuta, profonda e improvvisa come questa, non bisogna essere gufi per immaginare che tutto slitterà in avanti, quando forse sarà già troppo tardi. Per fare alcuni esempi, la misura più semplice riguarda l’Irap, basta non pagare, ma è un intervento temporaneo, così come l’Iva e i contributi. Per l’assicurazione dei crediti commerciali ci sarà bisogno del Tesoro, per la cassa integrazione in deroga anche se vengono bypassate le Regioni c’è sempre l’Inps, per lo sconto delle bollette energetiche bisogna sentire l’Arera, l’autorità regolatoria, per il turismo c’è il Fondo per la promozione che deve ancora nascere. E così via. Uno scenario purtroppo già visto.
Manca in tutto questo una chiara direzione di marcia. Se il problema della prima emergenza era garantire liquidità (e abbiamo visto come è stato fatto), il problema principale in vista della ripresa è sostenere investimenti, fatturato e capitale delle imprese. E per questo non c’è abbastanza. Non solo mancano gli investimenti pubblici (dove sono finiti i cantieri che dovevano riaprire fin dal Governo Renzi?), ma non c’è un sostegno adeguato agli investimenti privati. Positivo è che vengano concessi incentivi per rendere più facili e rapidi gli aumenti di capitale, anche se i tempi restano comunque lunghi. Tuttavia, lo strumento più efficace passa attraverso le imposte, defiscalizzando gli investimenti fino al limite di tasse zero, molto più di quel che è stato fatto con Industria 4.0. Costa, ma una parte verrà ripagata con le entrate generate dalla crescita.
Valeva la pena concentrare qui una parte del denaro fatto cadere a pioggia per accontentare lobby, categorie, sindacati, corporazioni.