Ieri, come da attese, la Federal Reserve ha alzato i tassi di 25 punti base portandoli nel range 4,75%-5% al livello più alto dal 2007. Il rialzo avviene appena qualche giorno dopo la manovra di immissione di liquidità varata dopo la crisi che ha colpito alcune banche regionali americane ed è esplosa con Silicon Valley Bank. Mentre la Fed alza i tassi per contenere l’inflazione immette liquidità per evitare che i settori più sensibili al rialzo dei tassi causino una crisi finanziaria.
Dopo la mossa di ieri dovrebbe mancare un altro ritocco di 25 punti base; a quel punto la questione sarà quanto tempo passerà prima che inizino i tagli o per quanto tempo i tassi rimarranno oltre il 5%. Le variabili sono tre.
La prima variabile è l’inflazione, che al momento non sembra scendere. Il mercato del lavoro, confermava ieri Powell, rimane in ottima salute, e in diversi settori si ottengono incrementi salariali in doppia cifra. Questo è vero, sia pure in misura minore, anche in Europa. L’inflazione non è diminuita nonostante il prezzo del petrolio scenda da inizio giugno 2022 e quello del gas da settembre. Qualsiasi inversione di questi due beni, magari per vicende esogene all’economia, agirebbe in senso opposto. Ieri mattina il dato sull’inflazione di febbraio nel Regno Unito sorprendeva al rialzo con un incremento del 10,4% rispetto a stime che oscillavano dall’8,4% al 10,1%. L’inflazione dei beni alimentari ha toccato a febbraio il 18,2%: il livello più alto degli ultimi 45 anni. Senza una discesa netta dell’inflazione un cambio di rotta delle banche centrali è complicato.
La seconda variabile è lo stato di salute dell’economia. La recessione per ora non è arrivata e la tenuta del quadro economico ha sorpreso rispetto alle previsioni di questo autunno, quando si prospettava da più parti una crisi imminente. È vero che l’incremento dei prezzi riduce il potere d’acquisto e quello dei tassi restringe il credito e manda in crisi alcuni settori tra cui l’immobiliare. Ciò che è sfuggito è che la quantità di risparmi accumulata nel periodo 2020-2021 permette a una larga fetta della popolazione di affrontare l’incremento dei prezzi. I risparmi sono ancora oggi sensibilmente più alti che nel febbraio 2020; è vero negli Stati Uniti e anche in Europa. Questa variabile complica le previsioni economiche.
La terza variabile è lo stato di salute dei mercati. Se la scommessa sulla recessione o la crisi dei settori più sensibili al rialzo dei tassi facesse sprofondare i mercati, per le banche centrali diventerebbe più difficile tenere alti i tassi. Le banche centrali possono tollerare qualche sbandata perché il principale indice azionario globale ieri era a livelli del 20% più alti rispetto a quelli di febbraio 2020; prima di una pandemia globale, prima di una guerra in mezzo all’Europa e prima di una crisi energetica.
Per ora si conferma lo scenario degli ultimi mesi: le banche centrali alzano i tassi e nel frattempo immettono liquidità per evitare che i settori più fragili della finanza o dell’economia, dai fondi pensioni inglesi fino alle startup e ai venture capital californiani, determinino una crisi sistemica. Sullo sfondo continua il dibattito su quale possa essere la via di uscita delle banche centrali e dei governi dalle politiche espansive che si susseguono dal 2008. È una domanda che diventerà impellente quando arriverà la crisi tra un mese, 12 mesi o di più soprattutto se l’inflazione non dovesse essere domata.
Torniamo per un attimo alla Gran Bretagna che sicuramente ha le sue specificità dopo la Brexit. L’inflazione alimentare al 18,2% è un problema politico e sociale almeno quanto economico; più si scende nelle fasce di reddito più il problema è grave. La soluzione è politica. Le soluzione facili, dal nemico esterno agli espropri proletari più o meno mascherati, rischiano di esercitare un fascino irresistibile.
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