C’è chi dice che Salvini voglia la federazione Lega-FI per legittimarsi in Europa e contrastare la Meloni in Italia, e che Berlusconi sia d’accordo per farsi eleggere capo dello Stato. Non è di questo avviso Antonio Pilati, opinionista e saggista, ex componente dell’Agcom e dell’Antitrust. “Assistiamo a un fatto nuovo, legato alla fine della seconda repubblica e all’arrivo della terza” dice Pilati. C’è in palio non il “centro” politico, ma il perno del sistema. Anche a sinistra se ne sono accorti: un’iniziativa simile è stata lanciata da Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, guardando, però, non a M5s, bensì a Calenda, Iv, +Europa, Verdi europeisti.
Pilati, secondo lei che cosa sta succedendo?
Nel momento in cui veniva nominato Draghi, dopo il fallimento catastrofico del governo Conte 2 sostenuto da Ms, Pd e Iv, è finita la seconda repubblica. E con essa il sistema dei partiti che la reggeva.
Perché dice questo?
Perché ci troviamo in una specie di vuoto pneumatico della politica. Le cose importanti le fa Draghi, in virtù della sua legittimazione sovrapolitica. Però non si può vivere in eterno senza un sistema politico. La prima cosa di cui necessita è un partito-perno del sistema.
È per questo che ha richiamato la fine della seconda repubblica?
Se non ci collochiamo a questo livello, rischiamo di perdere di vista quello che sta accadendo. Dalla caduta di Berlusconi nel novembre 2011, per quasi dieci anni quel perno è stato il Pd. Lo era anche prima, in maniera incompleta a causa del contrasto di Berlusconi; nell’ultimo decennio in maniera totale.
Ma con il governo Conte il Pd è andato in forte crisi.
L’alleanza con i 5 Stelle, forcaioli e squadristi, ha distorto la sua funzione, che per ogni partito-perno del sistema dev’essere di equilibrio e stabilizzazione.
E adesso?
Il sistema politico è scomposto, disgregato, senza un baricentro. La partita dei prossimi anni sarà quella di ricostruire un ordine politico; ma questo può avvenire soltanto ridandogli un perno. A mio modo di vedere, quello cui stiamo assistendo è la competizione politica per conquistare questo ruolo.
A che punto è la partita?
Il Pd con i suoi errori strategici si è messo fuori gioco. Invece il progetto Salvini-Berlusconi di creare un più ampio soggetto di centrodestra a sostegno dell’opera di risanamento di Draghi mi pare una mossa strategica in questa direzione. Servono due cose: la strategia politica dell’alleanza e la massa critica.
Nel centrodestra sono sorti molti dubbi, mentre su Repubblica Ceccarelli ha parlato di “predellino alla rovescia”, evocando la nascita a freddo del Popolo della libertà (18 novembre 2007, ndr).
Siamo in un’altra storia. La seconda repubblica è finita, quegli equilibri si sono spezzati, ne vanno cercati di nuovi. Ricostruirli è un’operazione molto complessa e difficile, che non consiste solo nel costruire una dimensione molto adeguata. In questo senso ci sono alcuni elementi che parlano chiaro.
Quali sarebbero?
Uno è l’operazione referendum. Scegliendo di appoggiare la proposta molto seria dei radicali, Salvini ha definito con chiarezza la sua linea politica su un tema decisivo. Non è scontato, perché sulla giustizia la posizione della Lega è storicamente variegata. In questo modo, Salvini chiarisce quale sarà la posizione del partito che si candida a essere perno del sistema su un punto cruciale.
Allude alla riforma della giustizia?
Sì ma prima ancora dei contenuti è importante creare la consapevolezza che occorre superare lo squilibrio tra magistratura e politica. Uno squilibrio che ha reso per trent’anni la politica poco incisiva e molto ricattabile.
È il vero problema, apparentemente insolubile, che arriva fin dalla prima repubblica.
Appunto. È la politica che si è auto-relegata in una posizione di marginalità. Nel 1993 c’è il primo atto: viene abolita l’immunità parlamentare, fissata dai padri costituenti come scudo della politica nella “Costituzione più bella del mondo”. La Carta viene modificata e la politica consegna un’arma fondamentale alla magistratura. Per vent’anni è una continua serie di cedimenti e i timidi tentativi di contrastarli, come il lodo Schifani, alla fine non passano e la politica decide contro se stessa.
Con i referendum si può riuscire a ristabilire la divisione dei poteri?
Con i referendum si mette il tema chiaramente al centro e si indica una direzione di marcia. Non è poco. Il “come” si fanno le riforme imposte dal Recovery è un problema enorme, non intendo sminuirlo. Ma la condizione base per le riforme è la volontà della politica di porre rimedio allo squilibrio.
Che cosa si può dire, tornando alla federazione?
Che non è solo un’operazione politicista e i referendum di Radicali e Lega lo dimostrano. Se n’è accorto anche il Corriere, giornale non affetto da pregiudizi contro i magistrati. L’editoriale di Panebianco pubblicato ieri rimarca con chiarezza l’importanza del referendum per l’emancipazione del nostro sistema politico.
Quali sono le variabili che decidono l’esito di questa operazione?
Ciò che ne sarà dell’Italia nel prossimo anno e mezzo. Lo abbiamo detto: la scommessa di Draghi non è scontata. Ci sono molte variabili, in Europa e nell’economia, che possono creare grossi problemi all’Italia.
Quali altri elementi ci sono, oltre al referendum, che depongono a favore di questa visione strategica?
La necessità di ridefinire i rapporti del centrodestra su scala europea. Anche qui c’è disordine e la Lega sta cercando di trovare un assetto diverso, anche se diversamente dal piano interno, la linea non mi pare così chiara.
C’è un’altra variabile importante: perché Pd e M5s dovrebbero lasciare campo libero a Lega e FI?
Infatti diventare il nuovo perno del sistema è un obiettivo su cui c’è molta concorrenza, ed è politicamente legittimo che il Pd pensi di riprendersi il ruolo che ha perduto. Ci sono due problemi. Uno l’ho detto: M5s è inadatto allo scopo. E questa strategia non è stata abbandonata e sostituita neppure nel momento in cui è caduto Conte ed è arrivato Draghi.
E l’altro?
Dimessosi Zingaretti, Letta non ha indicato una rotta chiara, si è baloccato con l’idea di continuare l’alleanza e ha parlato d’altro.
In molti attribuiscono a Conte e al Fatto Quotidiano la volontà di mettere in crisi il governo.
Forse vogliono ma certo non possono. Nel 2018 hanno conquistato il 35% dei seggi e non hanno realizzato nulla di significativo: hanno tagliato i parlamentari e i vitalizi, cose inutili se non dannose, hanno solo occupato potere, fino a quando sono stati costretti a smobilitare.
Quanto dura il vuoto politico?
Fino alle prossime elezioni, quando la parola tornerà al popolo.
Avverrà nel 2023?
Non so dirlo, ma il momento è quello. Da qui ad allora la situazione resterà incerta.
Torno a chiederle i motivi principali.
Ci sono molte pressioni perché la Bce rallenti e poi smetta di acquistare i titoli di debito degli Stati. Germania e paesi nordici temono la ripresa dell’inflazione e una parte del loro mondo politico vuole restaurare al più presto la disciplina di bilancio. Le riforme che dobbiamo fare per ottenere i prestiti del Recovery sono essenziali, complesse e in qualche caso dirompenti per il nostro sistema amministrativo.
Che cosa intende dire?
Il giudizio della Commissione dovrà essere benevolo, se non vogliono affondarci.
Non ci affonderanno: c’è Draghi.
È vero. Come è vero che il nostro sistema industriale del Nord è parte integrante e fondamentale della catena produttiva tedesca.
Draghi è il capo del governo di unità nazionale. Forse non dovremmo dimenticare che è anche l’interfaccia istituzionale dei nostri futuri creditori.
Credi sia uno dei motivi fondamentali per cui oggi abbiamo l’ex governatore della Bce a capo del Governo. E il sistema politico si è adattato all’idea dell’unità nazionale.
(Federico Ferraù)
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