Sul Covid il governo è incerto, non sa quale strada prendere, dice Stefano Folli, editorialista di Repubblica. Ma “un altro lockdown totale non ce lo possiamo permettere. La situazione economica è tremenda e con un’altra chiusura rischierebbe di diventare irrecuperabile”. Proprio per questo la partita decisiva è quella del Recovery Fund, che però rimane tutta da definire. L’altra incognita riguarda quella che Folli chiama la “battaglia” per il Quirinale. Un acceleratore politico che potrebbe manifestare i suoi effetti prima del previsto.



Quando un ministro della Salute dice “lavoriamo giorno e notte per evitare un altro lockdown” non è un buon segno. È questo che ci aspetta?

L’aumento dei contagi non riguarda soltanto noi, ma anche altri paesi europei. In ogni caso non sembrano esserci idee tanto chiare su come affrontare la situazione. Non si vede una strada certa.



Sileri, lamentando troppa burocrazia nel Comitato tecnico-scientifico, ha detto: “è il Cts a servizio della politica, non il contrario”. Lei si riferisce a questo?

Non solo. Sembra mancare un rapporto di collaborazione coerente tra Stato e regioni. Serve una maggiore centralizzazione delle decisioni oppure le regioni devono avere più libertà? Non è chiaro. Però non vedo una strategia segreta come alcuni suppongono.

Che cosa intende?

Mi pare fantascientifica l’ipotesi che il governo alimenti la paura nel paese per lucrarne un vantaggio politico. Il governo vuole evitare di non farsi responsabile di tutto ciò che potrebbe andare male, magari lasciando una parte di responsabilità ai presidenti delle regioni, questo sì.



Dunque lo stato di emergenza è reale? O a Palazzo Chigi temono – s’intende politicamente – la fine dell’emergenza Covid?

Dire così mi sembra eccessivo. C’è una difficoltà reale, ma un altro lockdown totale non ce lo possiamo permettere. Non è nell’interesse di nessuno, perché la situazione economica è tremenda e con un’altra chiusura rischierebbe di diventare irrecuperabile.

Quindi?

Si procede in modo tentennante o contradditorio per evitare di arrivare a misure draconiane che sarebbero fatali. Il governo non teme la fine dell’emergenza, ma certamente lo stato di emergenza ingessa il dibattito politico. In questo quadro, nessuno può pensare oggettivamente a una crisi di governo.

Qual è il problema più delicato dopo l’aumento dei contagi e la crisi economica?

Quello dei fondi europei. È una partita di cui nessuno può dire con certezza come andrà a finire. Al momento sono sempre più lontani, come la carota davanti al muso dell’asino.

Lo scoglio maggiore?

È legato al fatto che una parte di paesi europei continuano a non essere d’accordo con l’impianto del Recovery Fund, con il risultato di allontanarlo nel tempo.

Non è sorpreso nel sentire Gualtieri dire che “il Mes ora non serve”, allineandosi a Conte?

Il Mes continua a essere un problema politico. Gualtieri ha anche detto che è come se il Mes avesse già dato i suoi risultati senza essere entrati nel programma. È una dichiarazione che leggo così: non firmiamo il Mes, ma all’occorrenza potremmo farlo in qualsiasi momento. Questo ci ha aiutato a tenere bassi i tassi e a calmierare lo spread.

In questa fase, grazie anche ai fondi che può mettere a disposizione, l’Ue risulta vincente. Dopo le regionali sono arrivati segnali di un riposizionamento di Salvini verso il centro. Come commenta?

Ci sono due aspetti. Da una parte il governo non ha mai fatto un’apertura vera all’opposizione, con l’obiettivo di delegittimarla e di escluderla dalla logica europea. Dall’altra parte è vero che il centrodestra dovrebbe avvicinarsi di più all’Europa, e dopo la Meloni adesso anche Salvini sembra averlo compreso.

Cosa significa per un partito euro-critico come la Lega?

Non certo diventare europeisti ortodossi, ma riconoscere che oggi certe posizioni appaiono fuori contesto. La scommessa di Salvini fino al 2019 era che l’Europa si sarebbe disintegrata con la crisi. Non è successo e non mi pare che possa succedere a breve. La difficoltà sul Recovery Fund è seria, ma oggi non è possibile governare l’Italia su una linea di contestazione dell’Ue e dell’egemonia tedesca.

Però – ha detto ieri Salvini al Corriere – “non è chiaro dove andrà il Ppe. Se va a sinistra non mi interessa, se si sposta sulle posizioni di Orbán avvio il dialogo”.

Nel Ppe non hanno alcun bisogno di un’ala destra che rafforzi le posizioni di Orbán. Va anche detto che Orbán è un sorvegliato speciale dal punto di vista dei diritti umani, ma è totalmente ortodosso da quello della politica economica. Non è sulle posizioni di contestazione totale che Salvini ha abbracciato per lungo tempo. Resta il fatto che Salvini deve trovare una strategia diversa nei confronti dell’Europa.

Zingaretti entra nel governo o no?

Non lo farà, perché sa bene che se lo fa gli sfilano il partito. Diverso sarebbe stato se le regionali fossero andate malissimo. Così non è stato e oggi si sente ringalluzzito nel fare del Pd il primo partito. Non a caso ha smentito l’ipotesi di lasciare la presidenza del Lazio.

Ci sono incognite che possono turbare la navigazione del governo?

La prima riguarda il rapporto tra la pandemia e la situazione economica. Può succedere di tutto e anche in peggio. Moltissimo dipende dai fondi europei, che sono un punto estremamente delicato. La seconda incognita riguarda la corsa per il Quirinale.

In che modo?

Storicamente nel nostro paese l’elezione del capo dello Stato ha sempre turbato gli assetti politici. La mia previsione è che questo governo possa arrivare fino a gennaio 2022. Come arriveremo all’appuntamento, dipenderà dalla situazione economica e sociale.

E fino all’elezione al Colle?

È possibile che i posizionamenti in vista di quella battaglia diano luogo in anticipo a degli scossoni. Non saprei dire quali. Sicuramente Conte ha le sue ambizioni, che vanno dalla presidenza della Repubblica al giocare fino in fondo la partita nel governo.

Perché il Conte 2 dovrebbe arrivare fino al 2022 e non concludere la legislatura?

Non mi stupirei che il primo gesto del nuovo capo dello Stato, fosse anche un Mattarella rieletto, fosse quello di sciogliere il Parlamento.

(Federico Ferraù)