Ci vuole una crisi di governo. Vera, formale. E poi il voto. È l’unica strada per risollevare le sorti del paese e rimedire all’imperdonabile errore di aver formato un governo a qualsiasi costo, nell’agosto 2019. Lo dice Stefano Folli, editorialista di Repubblica, già direttore del Corriere della Sera e del Sole 24Ore. L’Italia è in balia di tatticismi senza alcuna prospettiva, e un aggravarsi della crisi recessiva, da molti considerato alle porte, avrebbe effetti distruttivi. “Da noi pare che votare sia diventato un tabù, come dire che non si vuol bene alla mamma” dice Folli. “Invece la democrazia è una cosa molto semplice”.



Aveva mai visto una situazione simile, in tanti anni di cronaca e analisi politica?

Di fasi ingarbugliate ne ho viste parecchie, ma di certo questa è una delle peggiori. Soprattutto per la modestia della classe politica.

Che differenza trova?

In passato i tatticismi erano accompagnati dall’azione di figure che rappresentavano una politica più alta. Adesso c’è solo il tatticismo fine a se stesso. Non c’è l’ombra di una visione del paese, del suo sviluppo. È la stagnazione completa.



Come mai siamo arrivati a questo punto?

I problemi vengono dall’avere fatto questo governo l’estate scorsa. Se il problema era combattere contro i sovranisti, occorreva farlo a viso aperto, dopo avere sciolto le Camere, dicendo parole di verità al paese. Non averlo fatto ci ha condotto dove siamo adesso, in questa guerra di tatticismi figli del nulla.

La via d’uscita?

Temo che non la vedremo per molto tempo ancora.

Dunque ci vorrebbe il voto.

La democrazia è una cosa semplice: quando la situazione è bloccata si restituisce la parola al popolo, non c’è un’altra strada. Il popolo decide, ed anche quando ha deciso, nessuno ha i “pieni poteri”, perché chiunque sia designato deve andare in Parlamento e avere la maggioranza.



Qualcuno dice: anche così facendo saremmo al punto di partenza.

Per poterlo dire bisogna votare. In Spagna si è votato tre volte in poco più di dei mesi. Non è che votare sia vietato dal dottore: si va alle urne e se non funziona ci si ritorna. Da noi pare che sia un tabù, come dire che non si vuol bene alla mamma.

Mentre la situazione è bloccata, potrebbe sorprenderci una pesante recessione, che per alcuni è già alle porte.

Siamo un paese già stagnante da tempo immemorabile, la cui forbice con i concorrenti – uno su tutti, la Germania – si sta allargando sempre più. A maggior ragione trovo abbastanza incongruo, non voglio usare un altro termine, che si parli di governo “istituzionale”.

Non funzionerebbe?

Siamo seri. I governi istituzionali nascono in momenti di particolare divergenza, ma dopo che si è tentata la carta elettorale, non per evitarla. Ricorrere in un momento simile, fatto di stagnazione politica e di totale mancanza di visione, ad una figura alta, vorrebbe dire bruciarla. Anche il governo istituzionale diventerebbe l’ennesimo tatticismo.

Renzi e Conte si vedranno la prossima settimana. Il primo ha avanzato un programma di rilancio e riforme in 4 punti, Conte cerca fiducia sulla sua “Agenda 2023”. Chi la spunta?

Dubito che l’esito sarà decisivo. Renzi non ha nessuna voglia di uscire dalla maggioranza. Se avesse voluto davvero aprire una crisi, di motivi ne avrebbe avuti a bizzeffe. La stessa prescrizione era un’ottima ragione.

Allora è lui a bluffare.

Poteva mandare a casa il governo, invece ha continuato a rinviare attraverso mezzi ultimatum, liste di richieste fatte di punti tali da essere inattuabili, o così astratti da poter essere sottoscritti da chiunque…

È solo retorica?

Certo. Vuol dire che c’è dell’altro. Innanzitutto un desiderio formidabile di visibilità: Renzi è una figura certamente abile e spregiudicata, ma non è più riuscito a stabilire un filo diretto con l’opinione pubblica e resta ancorato ai piccoli sondaggi di un partito ormai solcato da molti nervosismi. Non sa cosa fare.

In questa tran-tran bizzarro ci sono le nomine. Come vede questa partita?

Sono sicuro che se Conte usasse l’argomento nomine con un po’ più di abilità, potrebbe tranquillizzare Renzi.

Cioè concedendogli qualcosa in più.

Sì. Il tema delle nomine incrocia la crisi politica, nelle stanze dei palazzi se ne parla eccome. Non intendo dire che l’attuale manfrina dipenda tutta dalle nomine. Però le nomine pesano per un buon 40 per cento.

Lei ha detto che Renzi non sa cosa fare. E Conte?

Conte ha dalla sua il Pd, che lo sostiene con molta insistenza, e il presidente della Repubblica. I Cinquestelle non lo amano più, ma sono talmente in crisi da non poter proporre un’alternativa che si risolva in una situazione migliore di quella in cui stanno adesso. Se non si apre una crisi formale, Conte galleggia.

Fin oltre il referendum e la legge di bilancio, cioè alla primavera 2021?

Le previsioni così a lungo termine non mi appartengono. Se però si riferisce all’intreccio tra situazione politica e procedure, non credo, e lo dico in generale, che un paese che ha l’esigenza politica di tornare al voto possa essere bloccato da elementi procedurali. Questi diventano importantissimi quando non si vuole arrivare a un redde rationem politico.

Se invece vi si vuole arrivare?

Se si vuole votare, quello che si farebbe in quattro mesi si fa in dieci giorni. Appellarsi alle procedure nasconde la volontà di allungare il brodo della legislatura.

Si cercano “responsabili” proprio a questo scopo. Il tema responsabili ha due lati. Uno è il teatrino. L’altro è la formazione di un’area politica di centro, a cui puntano Conte e la Cei. Però anche Renzi vorrebbe rappresentare quel centro. Come la mettiamo?

Per quanto i responsabili siano gente disposta quasi a tutto, per raggiungere un nuovo assetto hanno anch’essi bisogno di passare attraverso una crisi formale. Non possono riposizionarsi come fossero i parenti poveri buoni per qualsiasi servizio.

E il centro partitico secondo lei ha un futuro?

Questo centro ha dei sostegni importanti, e ha in Conte oggi il personaggio più in vista, ma sappiamo bene come andò con Monti.

In ogni caso, secondo lei occorre prima una crisi aperta. Solo dopo si fanno i conti.

I conti si possono fare solo dopo il voto. Inoltre non riesco a vedere Renzi che assume una leadership sicura di quest’area. E la legge elettorale? È il nodo cruciale, senza scioglierlo si fanno i conti senza l’oste. Con una legge proporzionale il centro è un discorso serio, diversamente ha poco senso parlarne.

Eravamo rimasti all’ipotesi “Germanicum”, proporzionale con soglia al 5% e diritto di tribuna.

Non è finito nel cassetto, ma finché ci sono queste fibrillazioni il dossier è fermo. Sono certo che l’inquietudine di Renzi è legata anche alle sorti della legge elettorale. La soglia del 5% gli fa paura.

Bando ad ogni scenario di lungo termine, dunque.

Com’è pensabile che con lo sfilacciamento che vediamo, e che continuerà, si arrivi al 2022, guardando addirittura all’elezione del Capo dello Stato? Sono ipotesi lunari.

(Federico Ferraù)