Se escalation doveva essere sarebbe arrivata già nel primo mese di guerra, se invece il conflitto si trascina senza che nessuno Stato dell’area mediorientale voglia intervenire è segno che nessuno vuole farlo. Chi ne deciderà la fine, in conclusione, sarà solo Israele. Anche il giro nelle capitali della regione del segretario di Stato Usa Anthony Blinken, spiega Vincenzo Giallongo, colonnello dei Carabinieri in congedo con al suo attivo missioni in Iraq, Albania, Kuwait e Kosovo, lascia un po’ il tempo che trova, così come gli attriti e le divergenze che ci sarebbero stati durante l’incontro dello stesso Blinken con Netanyahu. Al di là delle dichiarazioni dissonanti tra le due parti il rapporto Usa-Israele è più solido che mai. Tel Aviv ora ha solo in mente le operazioni militari, per mettere in ginocchio Hamas, anche se sarà difficile farlo scomparire: si proseguirà almeno per qualche mese. Del futuro di Gaza si comincerà a parlare seriamente solo dopo. Blinken, tra gli altri, ha incontrato anche Abu Mazen: si è parlato di riformare l’ANP.



Blinken continua il suo giro nelle capitali mediorientali, stavolta ha visto anche Netanyahu. Le cronache dicono che è stato un incontro teso perché gli americani si sarebbero lamentati delle troppe vittime civili a Gaza. Siamo ancora al gioco del poliziotto buono e di quello cattivo? Fingono di avere divergenze ma stanno tutti dalla stessa parte?



Gli americani vorrebbero un minimo di comprensione per far vedere che la loro attività è seguita dal partner e darsi così una credibilità con i Paesi arabi. La verità è che gli israeliani non hanno nessuna intenzione di fermarsi. Il numero di morti è arrivato quasi a 23mila, parte dei quali sono responsabilità di Hamas che impedisce alla gente di Gaza di scappare. Israele non sta perdendo di vista neanche il versante Hezbollah, prendendo di mira diversi loro capi. Questo conflitto non credo finirà domani o dopodomani.

Il rapporto Usa-Israele rimane, quindi, nonostante qualche apparente divergenza verbale, di sostegno assoluto?



È un rapporto solidissimo. Come potrebbero gli Usa fare a meno della loro longa manus in Medio Oriente? Israele fa anche gli interessi americani: controlla tutta l’area e riferisce puntualmente. È un connubio indissolubile. Mettiamoci poi gli interessi ebraici nella finanza americana. Non esiste, né adesso né nei prossimi decenni, che ci possano essere degli urti tra di loro.

Blinken ha parlato ai Paesi arabi per cercare di tenere la situazione sotto controllo ed evitare un’escalation del conflitto, avrebbe promesso relazioni più stabili con Israele e la creazione di uno Stato palestinese, dichiarando che i palestinesi non devono essere buttati fuori dalla Striscia. Di fatto, però, Israele fa il contrario di tutto ciò, come si spiega?

Blinken auspica che si realizzi quello che lui spera, ma gli israeliani vogliono innanzitutto spazzare via Hamas. Si fermeranno quando riterranno di essere intervenuti a sufficienza, pur sapendo che poi ci saranno cellule terroristiche che continueranno a operare. Solo a quel punto si deciderà cosa fare della Striscia di Gaza: parte del governo israeliano non intende cedere territori per fare uno Stato palestinese, ma quando si fermeranno le armi poi si discuterà e non è detto che al tavolo non prevarrà l’idea americana di due Stati che convivono. Non è escluso che Israele alla fine debba cedere alla realpolitik. Gli Usa per ora vogliono tenere aperta una trattativa e per questo parlano con il mondo arabo. Il problema è anche se i palestinesi accetteranno gli israeliani: c’è tutta una parte del mondo arabo che non li vuole al loro confine. Una questione che si risolverà in tempi lunghi. Non sarà così semplice.

Si parla di pericolo di escalation dal primo giorno di guerra, ma alla fine, nonostante azioni militari devastanti sulle cose e sulle persone, questo allargamento non c’è ancora stato, se non in termini limitati e ancora almeno apparentemente sotto controllo. I Paesi dell’area, insomma, avrebbero già motivi per intervenire militarmente ma non si muovono; non lo faranno mai?

Israele fa attenzione a evitare il loro intervento. Si guarda bene dall’urtare la sensibilità di Egitto e Giordania, per esempio. Ci sono governi che dipendono dagli aiuti occidentali.

Da dove potrebbe venire allora il pericolo di una guerra allargata?

Il vero pericolo è l’Iran, che urla, ma, secondo me, non ha la forza per sostenere una guerra con Israele. Non così tanti anni fa l’Iraq, se non fosse stato a corto di uomini, avrebbe sconfitto e invaso l’Iran. Teheran produce armi e droni, ma sostenere l’urto di un attacco israeliano non credo che possa farlo. Vuole accreditarsi come capofila dei Paesi anti-Israele, ma in realtà ben si guarda da fare la guerra. Appoggia gruppi terroristici ma ad attaccare Israele non ci penserà mai. Poi c’è il Libano che, tuttavia, è diventato terra di nessuno. Ma Tel Aviv non ha convenienza ad aprire un nuovo fronte con Hezbollah e si limita a operazioni chirurgiche.

Tutto questo cosa significa?

La fine della guerra arriverà quando Israele si dirà soddisfatto. Non credo che ci sia nessuno che abbia intenzione di intervenire. A favore di chi poi, di Hamas?

Ismail Haniyeh, uno dei capi politici di Hamas, ha fatto appello ai Paesi islamici perché sostengano la loro resistenza con le armi. Cadrà nel vuoto?

Sicuramente. Anche il Qatar, che era il capofila dell’appoggio ad Hamas, sta prendendo le distanze perché ha capito che è meglio fare accordi con gli occidentali. Se qualcuno doveva intervenire nella guerra lo avrebbe fatto più o meno nel primo mese.

Gli israeliani un giorno dicono che sta partendo una nuova fase della guerra, con operazioni speciali, l’altro che si intensificheranno le operazioni a Khan Yunis. Qual è la verità?

Israele deve far credere all’alleato americano che tiene conto di certe considerazioni. Nel momento in cui potranno fare un tipo diverso di guerra lo faranno. Poi occorre vedere la situazione sul campo.

Uno degli incontri di queste ore è stato quello tra Abu Mazen, quindi l’ANP, con Giordania ed Egitto: come possono influire sul conflitto?

Abu Mazen non ha nessun potere, nessuna credibilità. Li ha visti solo per far vedere che parlano tra di loro.

Israele avrebbe permesso un’ispezione delle Nazioni Unite a Gaza, anche se non ha grande considerazione dell’ONU come istituzione. Potrà servire a qualcosa?

Visto i rapporti freddissimi fra ONU e Israele credo che sia solo una questione di facciata. Forse è un modo per riprendere dei rapporti che rimangono un po’ tesi.

Cosa deve fare ancora Israele prima di poter dichiarare chiusa l’operazione militare a Gaza?

Il Nord della Striscia comincia a controllarlo in maniera concreta, al centro proseguono i bombardamenti, e adesso metteranno mano al Sud dove sono ripiegati i capi sopravvissuti di Hamas. Quando finirà la “pulizia” anche lì si fermeranno, per ora Israele è interessato a questo.

Anche il piano abbozzato dal governo per il dopoguerra, con Israele che si occupa della sicurezza, i palestinesi degli affari civili e i Paesi terzi della ricostruzione, quindi al momento lascia il tempo che trova? Israele è concentrato sull’operazione militare?

Quando inizierà la trattativa si vedrà cosa succederà. Le guerre lampo oggi non esistono, questa non finirà in 15 giorni, ma a un certo punto terminerà. Possiamo definirla una operazione di polizia. Il progetto israeliano sul dopoguerra, comunque, può essere una base da cui partire.

La trattativa di pace con Israele, quando sarà possibile, verrà affidata a Netanyahu?

Sono convinto che Netanyahu sia a scadenza, bisognerà vedere quando. Può anche darsi che lo lascino a discutere di quello che verrà. Forse non conviene scalzarlo subito, anche per non lasciare campo alla destra. Solo in seguito verrà messo da parte.

(Paolo Rossetti)

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