Sembra impossibile pensare che già settimana prossima, dopo il parziale scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi all’ombra di una sorta di “cessate il fuoco” o “pausa umanitaria”, la guerra tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza possa riprendere con la stessa violenza e gli stessi obiettivi. In questo accordo raggiunto con il fattivo interessamento del Qatar e un chiaro, anche se discreto, impegno americano, si nasconda probabilmente il futuro di una nuova situazione politica nel Medio Oriente.
Dopo l’eccidio e la criminale invasione di Hamas nei kibbutz israeliani il 7 ottobre, seminando morte, terrore e orrore, la reazione israeliana è arrivata quasi subito prima con bombardamenti e alla fine con l’azione di terra, con artiglieria e carri armati, in un territorio lungo pochi chilometri dove vivono in superficie due milioni di persone e dove nel sottosuolo ci sono chilometri di cunicoli e strade che, sotto case, scuole, ospedali, nascondono il quartiere generale operativo dell’organizzazione terroristica di Hamas.
In un simile spazio la morte di civili, crimini di guerra e violazioni delle convenzioni internazionali si sprecano, oppure non si tengono realisticamente nemmeno in conto.
La sintesi di tutto questo è che, dopo 75 anni di guerre vissute a singhiozzo, dopo azioni terroristiche, la colonizzazione e la compattezza israeliana sorretta dagli occidentali, soprattutto dagli Stati Uniti, il governo di Tel Aviv, diventato di Gerusalemme dopo il 1980, tra polemiche e mancati riconoscimenti, sembra arrivato a un punto talmente esplosivo da richiedere una svolta politica epocale.
La risoluzione 181 delle Nazioni Unite approvata nel 1947, due Stati e due popoli, con Gerusalemme “città libera”, sembra un ricordo irrealizzabile, perché uno Stato palestinese, di fatto, non è mai esistito. Fare l’elenco dei colpevoli di questo fallimento sembra ormai un esercizio impossibile.
Bisogna quindi prendere atto di una brutale realtà. il dissolvimento dell’antico Impero Ottomano ha creato un putiferio dove solo dopo anni alcuni Paesi arabi riconoscono o riescono a convivere con Israele, solo l’Autorità nazionale palestinese, dopo la svolta di Yasser Arafat, ha riconosciuto Israele. Tropo poco per assicurare un clima di relativa pace e tentare una scelta di sviluppo economico.
In più, accanto alla confusione politica, si è consolidato negli anni un radicalismo religioso (islamico innanzitutto, ma in parte anche ebraico) che lentamente ha reso più grave la situazione. Si aggiunga a tutto questo il quadro geopolitico internazionale, dove non esiste né una potenza egemone, né un piccolo gruppo di Stati che cerca una coesistenza pacifica, né tanto meno un organismo internazionale che abbia l’autorità e (ormai forse) neanche la competenza di governare una simile crisi.
Si rimane quindi, dopo più di un mese di guerra, a una piccola tregua, tra due realtà, Israele e Hamas, che dichiarano esplicitamente che non si riconoscono e che vogliono cancellarsi a vicenda. Insomma si dice e ci si rinfaccia a chiare lettere che una di queste due realtà è di troppo nello scacchiere mediorientale.
C’è da restare allibiti che, nella tregua per lo scambio tra ostaggi nella mani di Hamas e prigionieri nelle carceri israeliane, il premier Benjamin Netanyahu ripeta che “Hamas dev’essere distrutta” e nello stesso tempo i capi di Hamas tengano nel loro statuto, come in quello di altre organizzazioni terroristiche e di alcuni Stati come l’Iran, dove si proclama che “si guadagna il Paradiso uccidendo un ebreo”, con assurde distinzioni tra israeliano e sionista. Che tipo di dialogo può esserci e come si spiega questa tregua guidata dal Qatar e, in fondo, ben vista da tanti perché per qualche giorno non ci si ammazza a vicenda?
È in questo incrocio di trattative che si deve comprendere quello che alcuni cercano di operare nelle stanze della diplomazia e dei servizi segreti.
Ritorniamo per un attimo alla prima visita di Joe Biden in Israele e alla frase “Non ripetete gli stessi errori che abbiamo fatto noi dopo l’11 settembre”. Con tutta probabilità, come sostiene Lucio Caracciolo, quell’invito di Biden non era un invito ma “l’ordine di una grande potenza”.
Biden poteva dire questo anche perché conosce bene l’impopolarità di Netanyahu non solo nel mondo arabo, ma anche in quello occidentale, in quello americano, ma sopratutto in Israele. Mai un premier israeliano è stato contestato e criticato come Netanyahu. L’attuale premier di Israele sa benissimo che ha i giorni contati, quelli della guerra, che lui tenta di allungare con l’esplicito obiettivo di eliminare Hamas. Ma è possibile una operazione del genere?
È ipotetico, ma forse c’è qualche tratto di realismo in questo ragionamento, pensare che lo scambio degli ostaggi e dei prigionieri possa continuare nei prossimi giorni, magari nelle prossime settimane contemporaneamente al protrarsi di cessate il fuoco e di pause umanitarie.
Che necessità ci sarebbe da parte degli israeliani in un lungo cessate il fuoco o in una lunga pausa di guerra di tenere Netanyahu a capo dell’esecutivo e non ricorrere magari a elezioni per cambiare maggioranza in modo che i partiti religiosi fondamentalisti escano dall’esecutivo? Possiamo dire con certezza che Biden, che di fatto rappresenta l’alleato storico di Israele, non si opporrebbe a questa soluzione.
Resta ovviamente, dall’altra parte, Hamas. Ammaccata certamente, malgrado alcune dichiarazioni di improvvisati supporters anche occidentali, ma comunque ancora viva e operante. Chi la può fermare nella sua azione di terrorismo periodico? Anche in questo caso viviamo nelle ipotesi suffragate da qualche segnale di realismo. Guardiamo un attimo.
Il Qatar è attivissimo e probabilmente lo è per i suoi interessi nel mondo che conta, ma anche per l’Arabia Saudita che supporta discretamente la sua azione. Sono paesi che sembrano quanto mai desiderosi di entrare nei grandi meccanismi finanziari e commerciali mondiali, con distinzioni di progressivo smarcamento dallo “stato etico” iraniano e probabilmente dalle radicalizzazioni religiose e dalla loro deriva terroristica.
Forse è stato l’Egitto a tracciare la strada, mettendo in campo il laicismo del suo esercito, come fece a suo tempo Ataturk in Turchia, contro i Fratelli musulmani. Tutte queste forze sparse, da una parte e dall’altra, potrebbero mettere in campo delle dissuasioni nei confronti dei capi di Hamas.
È solo un’ipotesi, ripetiamo. Ma può anche darsi che la guerra stia trovando una soluzione proprio con lo scambio tra ostaggi e prigionieri. Vedremo nei prossimi giorni. Non è mai stato comodo a Israele impegnarsi in guerre lunghe. E alla stessa Hamas, può a un certo punto mancare non la nuova popolarità, ma l’appoggio di Stati che condividono in parte la stessa fede.
Ripetiamo, è solo un’ipotesi carica di speranza. Una svolta epocale che vedrebbe Israele più isolata in Occidente e un Hamas non più supportato da tutti i Paesi arabi. È l’incognita del momento che vive il mondo.
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