Israele continua la sua risposta ad Hamas con l’incognita degli ostaggi. Ma deve fare i conti anche con il possibile allargamento della guerra a Hezbollah, la cui forza militare è notevolmente superiore ad Hamas. Le incognite per il governo di Netanyahu, racconta Sherif El Sebaie, egiziano, opinionista ed esperto di diplomazia e politiche sociali di integrazione, sono diverse anche dal punto di vista politico: il Paese prima o poi chiederà conto della débâcle dell’intelligence e il conto potrebbe pagarlo proprio lo stesso premier. Resta poi il sospetto che ad Hamas possano essere arrivate armi dall’Est Europa, dall’Ucraina: non ci sono prove, ma è un’eventualità che diversi analisti non escludono. Israele, d’altra parte, non ha voluto fornire a Kiev il sistema antimissile Iron Dome, per paura che cadesse in mano russa e, attraverso Mosca, finisse all’Iran.
Il pericolo di un coinvolgimento diretto di Hezbollah nel conflitto è reale? E come potrebbe cambiare lo scenario della guerra?
L’operazione di Hamas è stata programmata molto tempo fa, accuratamente pianificata e non poteva essere messa in campo senza il supporto e il beneplacito dell’Iran. Hezbollah è un’altra longa manus di Teheran nell’area e agisce da un territorio confinante con Israele, a Nord. Potrebbe essere molto utile per mettere l’esercito di Gerusalemme sotto pressione su due fronti. Se Hamas e Hezbollah rispondono agli ordini di Teheran e si volesse alleviare da un punto di vista strategico e tattico la pressione che Israele ha intenzione di esercitare su Gaza, magari anche con un’operazione di terra per sradicare completamente Hamas, allora è molto forte la possibilità che Hezbollah scenda in campo. Va considerato che Hamas in confronto a Hezbollah è niente: l’organizzazione libanese è molto più armata, organizzata, abituata al conflitto con Israele.
Tutti danno atto che, purtroppo, l’azione militare di Hamas è stata organizzata nei minimi particolari. Lo è anche dal punto di vista delle alleanze? La partecipazione di Hezbollah in un secondo momento potrebbe essere stata preventivata anche per far fronte alla reazione del nemico?
È molto probabile. D’altronde le notizie che ci giungono da inchieste di giornali come il Wall Street Journal e altri ci dicono che qualche settimana fa, a Beirut, c’è stata una riunione preparatoria che ha dato l’ok finale al lancio dell’operazione. Un incontro al quale avrebbero partecipato sia Hezbollah che i rappresentanti dell’Iran. Se c’è stata una riunione del genere con Hezbollah è chiaro che qualche tipo di accordo c’è.
Quindi hanno messo almeno in conto un possibile coinvolgimento di Hezbollah in maniera più diretta?
Sì, anche perché hanno sicuramente preventivato una reazione molto forte di Israele: quello che è successo è inaudito per le dimensioni che ha assunto la penetrazione di Hamas nel territorio israeliano e per il numero delle vittime, anche civili. Hamas conta anche sugli ostaggi, Israele potrebbe pensarci due volte prima di condurre un’operazione ancora più forte di quella che è in corso, con il rischio di metterli in pericolo sia con i bombardamenti in sé, sia in seguito alle minacce dirette fatte da Hamas, che ha promesso di giustiziare un ostaggio per ogni bombardamento. I palestinesi contano anche sul cambio di atteggiamento dell’opinione pubblica qualora gli israeliani provocassero un numero di vittime civili inaccettabile, suscitando indignazione e rimostranze.
Oltre a Hezbollah c’è la possibilità che il conflitto si allarghi ad altri Paesi dell’area?
No. Egitto e Giordania, che sono confinanti, sono alleati affidabili, hanno trattati di pace in vigore da tempo. Secondo inchieste giornalistiche israeliane avrebbero anche messo in guardia dal rischio che potesse succedere qualcosa di grosso. Altri Paesi arabi, come quelli del Golfo, hanno in corso processi di normalizzazione e persino l’Arabia Saudita, che probabilmente era il bersaglio principale dell’operazione dal punto di vista politico per far fallire le trattative relative a un accordo di Riyad con Israele, ha dichiarato che l’intesa di pace e normalizzazione è ancora sul tavolo. L’unico importante Paese dell’area che potrebbe essere coinvolto è l’Iran, ma non credo che abbia intenzione di farsi trascinare nel conflitto. Gli Usa poi hanno dislocato una portaerei davanti alle coste israeliane, un chiaro segnale rivolto proprio a Iran e Hezbollah.
Il rischio concreto, quindi, resta quello dell’allargamento a Hezbollah? Anche coinvolgendo il Libano nella sua interezza?
Hezbollah non è solo nel Sud del Libano, è annidato ovunque sul territorio libanese. Un’eventuale reazione israeliana rischierebbe di interessare tutto il Paese. Israele in passato ha già bombardato Beirut proprio come reazione a Hezbollah.
Politicamente una vicenda del genere che ripercussioni può avere all’interno di Israele? Il governo, già provato dalla protesta per la riforma della giustizia, sta rischiando?
Ci sono state fortissime tensioni interne ultimamente: la società israeliana ha una profonda frattura al suo interno fra ortodossi e laici, una vicenda tragica come quella delle ultime ore avrà sicuramente l’effetto immediato di ricompattare il Paese, tant’è vero che Netanyahu ha offerto un governo di unità nazionale. A un certo punto, però, si cercheranno i responsabili di questo fallimento dal punto di vista dell’intelligence e della preparazione militare: i segnali sono stati sottovalutati, non si era pronti e il bilancio delle vittime è altissimo, con molti giovani uccisi. Qualcuno dovrà pagare il conto.
A pagare potrebbe essere lo stesso Netanyahu?
È probabile. Già aveva i suoi problemi politici prima, con un fallimento del genere rischia ancora di più. A meno che non esca vittorioso da questo conflitto, ma deve essere una vittoria anche politica, che gli consenta di recuperare questo grande fallimento.
Israele dà una immagine di sé molto meno granitica di prima: è un Paese più debole?
Israele ha molto capitalizzato su questa immagine di Paese armato fino ai denti, con servizi di intelligence molto efficienti, ma più volte ha dato segnali che la realtà non corrisponde a questa immagine. Anche 50 anni fa, con la guerra del Kippur, quando pensava che gli egiziani non avrebbero mai attraversato il canale di Suez. È successo anche nel conflitto con Hezbollah, ed è questo il motivo principale per cui noi sappiamo che Hezbollah può far male, e lo stesso errore si è ripetuto anche adesso. C’è uno scollamento tra questa immagine proiettata e quello che è successo sul terreno.
Hezbollah, quindi, potrebbe essere un pericolo serio per Israele?
Certamente. Ha una lunga esperienza nei conflitti del Medio Oriente. Hanno combattuto in Siria per tanti anni, sono ben addestrati a conflitti molto cruenti. Hamas se ha avuto opportunità di farlo lo ha fatto su scala molto più ridotta. Hezbollah, invece, era uno dei pilastri della guerra contro l’Isis al fianco delle forze iraniane e siriane.
Cominciano a circolare voci secondo le quali ad Hamas potrebbero essere arrivate armi da zone come la Transnistria o l’Ucraina, da sempre al centro dei traffici di questo tipo. Hanno una loro fondatezza?
Non lo escludo. Sappiamo che già prima dello scoppio del conflitto con la Russia l’Ucraina era uno dei Paesi più corrotti d’Europa. Il fatto che ci sia corruzione nell’apparato militare ucraino è dimostrato anche dai licenziamenti che Zelensky ha operato sotto pressione Usa. Può essere che alcune di queste armi abbiano preso altre strade finendo anche ad Hamas. Ricordiamoci che Netanyahu ha rifiutato di fornire all’Ucraina la tecnologia Iron Dome, il sistema che permette la difesa aerea contro i missili, per paura che diventasse bottino di guerra dei russi e finisse nelle mani degli iraniani, che l’avrebbero analizzato e ricostruito in funzione antisraeliana.
Quella del Medio Oriente è un’area in cui tutti hanno degli interessi, dagli Usa, alla Russia, alla Cina: qual è alla fine il vero senso di questa guerra e cosa può produrre in termini di conseguenze geopolitiche?
Avrà un impatto anche dal punto di vista economico, sui prezzi del petrolio e del gas, sull’industria turistica: è un forte elemento destabilizzante che ci riporta diversi anni indietro. Prima che l’Arabia Saudita stringa un accordo di pacificazione con Israele ora dovrà passare un po’ di tempo, non può succedere a ridosso di un conflitto che farà centinaia se non migliaia di vittime. Le opinioni pubbliche arabe sono schierate con i palestinesi e di questo bisognerà tenere conto.
(Paolo Rossetti)
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