Hamas è ridotta a un’organizzazione clandestina e solo i fatti dimostreranno se è in grado di risollevarsi o no. Non si sa neppure se Yahya Sinwar, ucciso dai soldati israeliani, sia stato effettivamente sostituito. Forse il movimento ha un’altra guida, ma non viene detto in pubblico. E mentre le fazioni palestinesi cercano di ritrovare l’unità perduta, anche con incontri tra Fatah e Hamas per immaginare la governance di Gaza nel dopoguerra, Israele, spiega Paola Caridi, saggista e presidente di Lettera 22, continua nella sua opera di distruzione del Nord di Gaza, con l’intento di costruirci colonie da estendere successivamente anche al centro della Striscia.
In Cisgiordania, intanto, l’IDF continua con le sue azioni senza che l’ANP reagisca. Un altro segno di debolezza palestinese. Forse l’OLP può tornare a essere una sorta di casa per tutte le fazioni, ma per adesso anche questa è solo un’idea e niente più.
Hamas è ufficialmente senza capo dopo l’uccisione di Sinwar, però incontra Fatah in Egitto per accordarsi su come amministrare la Striscia di Gaza. Il mondo palestinese è ancora in grado di rispondere a Israele?
Non si sa se Hamas esprimerà un leader pubblico. Per una questione di sicurezza non è detto che voglia indicare il successore di Yahya Sinwar. Può darsi anche che ci sia un presidente del Politburo, ma non viene indicato il nome. Una pratica già usata all’inizio di Hamas. La leadership di Hamas, comunque, è sempre collegiale, esercitata da un Politburo e un presidente dell’ufficio politico.
Ma ci sono figure emergenti o che dimostrano di avere un ruolo importante?
Ci sono figure che in quest’ultimo anno abbiamo visto muoversi da un tavolo negoziale all’altro o parlare con la stampa. Uno di loro è Khalil Hayya, che è stato il ponte fra la leadership all’estero e Sinwar, ha partecipato al negoziato per il cessate il fuoco ed è coinvolto in quello attuale tra Fatah e Hamas sulla governance di Gaza. Poi ci sono Hossam Badran, che si è visto spesso intervistato dai canali arabi, e Musa Abu Marzouk, l’eminenza grigia di sempre, a lungo nei negoziati sia per le tregue nelle guerre precedenti, sia per la riconciliazione Fatah-Hamas. Era il più alto in grado nel meeting di Pechino del 23 luglio che aveva messo insieme tutte le fazioni palestinesi sotto l’ombrello dell’OLP. Nei primi mesi della guerra aveva proposto un governo tecnocratico, che però non è mai andato avanti. Abu Mazen, il presidente dell’ANP, d’altra parte è sempre stato contro la riconciliazione.
Perché adesso le fazioni palestinesi tornano a parlarsi e ipotizzano anche una gestione della Striscia dopo la guerra?
Siamo di fronte a un disastro enorme, soprattutto da quando è iniziato l’attacco forsennato al Nord di Gaza, che per me conclama il genocidio. Ci sono giornali israeliani, come Haaretz, che parlano di pulizia etnica: in un editoriale il quotidiano ha scritto che in fin dei conti è un genocidio. La questione della governance palestinese in questo contesto non riguarda solo Gaza, ma i palestinesi come soggetto politico. È un po’ difficile parlare di ricostruzione mentre sta crollando tutto e mentre è chiaro che l’obiettivo israeliano è distruggere per realizzare colonie nel nord di Gaza, per poi farlo anche al centro. Di cosa stiamo parlando?
La ricostruzione a Gaza, insomma, la faranno i coloni?
Pensiamo alla ricostruzione di Gaza come se si trattasse di una delle guerre precedenti: dopo il conflitto c’è una tregua e si ricostruisce in attesa della guerra successiva. È successo così fra il 2008 e il 2021. Ma questa è un’altra storia. L’obiettivo, non solo di Smotrich, ma anche del governo Netanyahu, è conclamato: il piano dei generali prevede che si spiani completamente il nord di Gaza con i bulldozer. E in gran parte lo hanno fatto anche nel resto del territorio. Quindi parlare di governance palestinese e di ricostruzione è l’ennesima foglia di fico che Europa e USA usano per non parlare di quello che sta succedendo. Si continua a proporre i due Stati, senza rendersi conto che la realtà è un’altra storia.
Ma al vertice di Riad dei Paesi arabi e islamici non è stata avanzata la stessa proposta?
Sì, anche loro hanno chiesto i due Stati, ma hanno detto anche che c’è un genocidio in corso. Così come l’Unione africana. Lega araba e Organizzazione per la cooperazione islamica vogliono l’embargo delle armi per Israele. La foglia di fico se la mettono anche loro, ma non è la stessa cosa. La parte occidentale, invece, arma Israele e non dice nulla al governo israeliano che vuole annettere la Cisgiordania.
Come possono reagire allora i palestinesi?
Intanto bisogna constatare l’assoluta assenza dell’ANP in Cisgiordania: è come se non ci fosse più, anche se Abu Mazen dice che il comitato per la ricostruzione di cui si parla al Cairo dovrebbe agire proprio sotto l’Autorità Nazionale Palestinese. Ma se, come dimostra la situazione nella West Bank, l’ANP nei fatti non esiste più, visto che non reagisce alle iniziative dell’esercito israeliano, di cosa stiamo parlando?
Come possono ritrovare unità i palestinesi?
L’unico appiglio può essere l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che si lega all’idea di uno Stato palestinese. Anche la presenza della Palestina all’ONU la si deve all’OLP. È una scatola vuota, ma è l’unico organismo che possa mettere insieme tutti, a condizione che entrino anche Hamas e Jihad islamica, come è stato deciso a Pechino. In Egitto, invece, si vuole fare un comitato di sostegno alla comunità con 15 figure di tecnocrati con nessun legame politico con le diverse fazioni e che si dovrebbero occupare della ricostruzione e degli aiuti umanitari. Con quale potere? E quale ruolo può avere il comitato nella costruzione di un soggetto politico? Un’operazione che vedo molto difficile. Ho l’impressione che si parli di questo per non parlare di altro, per non dire che bisogna fermare il genocidio.
Hamas quanto è stata fiaccata dalla guerra? È ancora il vero interlocutore per Israele?
Se c’è una forza con cui Israele ha raggiunto accordi per tregue o rilascio di ostaggi, come nel caso di Gilad Shalit, è stata proprio Hamas. Oggi l’organizzazione è stata colpita duramente dalla guerra. Quella che vediamo in azione ora è l’Hamas politica della leadership all’estero, mentre poco sappiamo di quella in Cisgiordania. Ci sono stati attacchi all’interno di Israele rivendicati da Hamas, ma bisogna vedere se si è trattato di azioni estemporanee che poi l’organizzazione si è attribuita. La circoscrizione di Hamas nelle prigioni non può lavorare come prima: lo dimostrano le notizie che filtrano sulle torture e le pessime condizioni di vita dei detenuti.
Cosa resta allora?
Il consenso per Hamas è molto cresciuto dal punto di vista ideale (non della militanza) dentro e fuori della società palestinese, nel mondo arabo ma anche fuori. Ma nei fatti questo non conta molto. La vera domanda è quanto reggono dal punto di vista politico la leadership e i quadri di Hamas nella ricostruzione di una politica palestinese. Ma adesso nessuno può sapere come evolverà Hamas. Anche la questione della sorte dell’ufficio politico di Doha (che potrebbe essere chiuso, nda) su cui si è scatenato il tam tam mediatico dimostra che l’ufficio politico conta ancora, non fosse altro per i negoziati. Ma altra cosa è la militanza e altro ancora il consenso ideale.
Come sta veramente Hamas, quindi, non lo sappiamo ancora?
Il fatto di non sapere il nome del successore di Yahya Sinwar dice che Hamas si è molto clandestinizzata. Certo, i leader ci sono e partecipano ai negoziati, però l’organizzazione è tornata clandestina.
(Paolo Rossetti)
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