Tre sono gli obiettivi che Israele si è prefissata di raggiungere con l’operazione a Gaza dopo l’orrenda carneficina perpetrata da Hamas.

I primi due sono distruggere la forza militare di Hamas e liberare gli ostaggi israeliani. Essi sono però finalizzati ad ottenere un terzo risultato: la ricostruzione della deterrenza e della sicurezza dello Stato israeliano. I tre obiettivi si tengono in modo forte, ognuno rimanda all’altro.



Se gli obiettivi immediati sono chiari, per definire una strategia di lungo periodo ancora mancano due punti centrali: cosa fare di Gaza quando le operazioni militari cesseranno e come la soluzione trovata si inserirà nel più ampio problema dello scioglimento della questione palestinese.

Manca cioè il fine strategico per eccellenza, la stella polare politica che dovrebbe illuminare i passaggi precedenti e caratterizzarli come passi verso la meta della risoluzione del conflitto. Ma se la pace rimane lontana, tutto diventa tattica, ogni mossa di Israele rimane confinata all’oggi, alla ricerca, giustificata e inevitabile ma parziale, della sicurezza immediata, della ricostruzione della deterrenza. Così ogni guerra per Israele si ritrova ad essere ridotta a battaglia, ogni vittoria diventa una vittoria mutilata, pace mai pace, ma un susseguirsi continuo di tregue tra uno scontro e l’altro.



Comunque sia, non tutte le soluzioni dei problemi odierni sono equivalenti e ognuna ha conseguenze diverse per il futuro.

Fermiamoci ad analizzare per il momento la questione Gaza. Alla fine dell’attuale operazione militare di Tsahal è probabile che Hamas, il suo esercito, venga sconfitta (ma è anche probabile che il partito politico – il quale, non si dimentichi, è una sezione dell’internazionale islamica della Fratellanza musulmana – sopravviva). E quindi si apre il tema di chi si dovrà prendere in carico la gestione dei vinti.

I vicini arabi, giordani ed egiziani ma anche sauditi, sono ben contenti di veder sconfitta sul piano militare la sezione palestinese dei seguaci di Hasan al-Banna, spesso nemici mortali in casa propria, come dimostra la vicenda dell’Egitto. Ma allo stesso tempo temono il dilagare nella propria popolazione dei sentimento anti-israeliano e filo-palestinese, specialmente in Giordania, Paese che ospita due milioni di rifugiati palestinesi e con metà popolazione di origine palestinese, compresa la regina.



La verità è che Israele è visto dai popoli arabo-musulmani come erede del colonialismo, a far corso dall’accordo segreto Sykes-Picot del 1916 che segnò la spartizione delle spoglie dell’impero ottomano. In questo senso la questione palestinese è il “prisma di dolore” con cui vengono letti i fatti odierni, una lente che restringe lo spazio di manovra dei governi.

Sul campo le opzioni possibili sono tre. La prima, Israele rioccupa Gaza. La seconda, una leadership diversa da Hamas, cioè l’Autorità nazionale palestinese (ANP), prende in carico la Striscia. La terza, la gestione viene affidata ad una forza multinazionale.

Ora i problemi immediati da affrontare sono diversi. Innanzitutto deve essere garantita la sicurezza ad Israele. Allo stesso tempo, è necessario riorganizzare la vita sociale ed economica degli abitanti di Gaza e in ultimo deve essere intrapresa la ricostruzione della città-Stato. Cioè è necessario uno sforzo della comunità internazionale per un piano Marshall.

A questo proposito, sorge un ulteriore problema. Gaza è un territorio sovraffollato dove la popolazione vive in condizioni di estrema povertà e molti dei suo problemi derivano da una situazione demografica insostenibile. Prima della nascita dello Stato di Israele Gaza aveva 80mila abitanti, adesso nell’enclave di 360 km quadrati vivono due milioni e mezzo di abitanti, di cui un milione e 200mila profughi palestinesi. Fin dalla nascita dello Stato di Israele a più riprese sono state avanzate proposte per trasferire la popolazione in altre zone, dal Sinai alla Cisgiordania, piani sempre saltati a causa dell’opposizione di un qualche interlocutore. Adesso la questione si riaffaccia, anche con l’idea di farsi carico da parte dei Paesi occidentali della questione dei nuovi rifugiati, offrendo loro ospitalità a chi vorrà lasciare quella martoriata terra.

Quindi in un prossimo futuro chi governerà Gaza si dovrà occupare di gestione di politiche straordinarie che sono estremamente complesse già in situazioni ordinarie, figuriamoci nel bel mezzo di un conflitto!

Per questo motivo sembrano non auspicabili le prime due ipotesi. L’ANP non ha né la forza materiale, né la legittimità per ritornare a Gaza, per di più al seguito dei carri armati israeliani! Né Israele può continuare a rimanere lì dopo l’azione militare. Contro questa ipotesi vi sono fattori internazionali – dalle pressioni del suo maggiore alleato, gli Stati Uniti, agli altri Paesi occidentali e ai Paesi arabi non nemici – ma anche fattori interni, quali il costo politico ed economico di una simile scelta, perché a quel punto la ricostruzione graverebbe sulle sue spalle.

Rimane l’opzione della gestione affidata a forze terze che dovrebbero ottenere il beneplacito delle forze in campo, degli attori regionali, magari sotto l’ombrello di copertura delle Nazioni Unite, ma certo con un mandato e regole di ingaggio più incisive di quelle della forza Unifil che non garantisce nessun cessate il fuoco tra il Libano e Israele. I Paesi arabi firmatari del Patto di Abramo potrebbero essere in prima linea in questa difficile operazione. Per Egitto e Arabia in testa sarebbe un’opportunità storica e segnerebbe l’ascesa a diventare potenze con un ruolo riconosciuto dalla comunità internazionale, che dovrebbe sostenere quei Paesi, specialmente l’Egitto, attanagliato da problemi economici enormi, mettendo in campo tutte le sue istituzioni, dal Fondo monetario internazionale alle agenzie dell’ONU. Ma sopratutto l’Unione Europea dovrebbe essere il principale sponsor di questa iniziativa.

Non è secondario sottolineare che questa soluzione dell’internazionalizzazione del “problema Gaza”, se si dimostrasse praticabile e se una volta attuata si dimostrasse valida (quanti se!), farebbe fare anche un passo avanti verso la vera soluzione del problema dei problemi. Ossia la convivenza di due popoli in un fazzoletto di terra dopo un secolo di guerre.

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