Una libertà indefinita di controllo dell’IDF sul territorio per evitare il ritorno del terrorismo o comunque attività anti-Israele, funzionari amministrativi palestinesi “non legati a Paesi o entità che sostengono il terrorismo”, una zona cuscinetto, la chiusura del confine meridionale. La smilitarizzazione della Striscia e la deradicalizzazione delle istituzioni finora governate da Hamas. Il piano di Netanyahu per il dopoguerra a Gaza è stato pubblicato. E anche se per certi versi riprende alcune posizioni già trapelate nei giorni scorsi e rimane ancora poco preciso sulle modalità di attuazione, rappresenta comunque un documento ufficiale che fino a questo momento mancava.
Un’iniziativa, osserva Marco Bertolini, generale già comandante del COI e della Brigata Folgore in numerosi teatri operativi quali Libano, Kosovo, Somalia, Afghanistan, che però non sposta molto lo stato delle cose: fino a che non ci sarà un riconoscimento della sovranità dei palestinesi, così come, viceversa, di quella israeliana, non si risolverà nessun problema. Difficile soprattutto che la gente di Gaza, ma anche della Cisgiordania, accetti un’amministrazione che viene imposta e non scelta dai palestinesi.
Anche la zona cuscinetto al confine, per quanto teoricamente provvisoria, contraddice l’idea dei due Stati: nei programmi USA che prevedono la nascita della Palestina accanto a Israele si esplicita, infatti, che non dovrebbero essere ridotti i territori in cui risiedono i palestinesi.
Generale, cosa significa la presentazione del piano per il dopoguerra da parte di Netanyahu?
Mi sembra un piano che non apre nessuno spiraglio. Intanto va contro l’idea dei due Stati. E poi i funzionari che si occuperebbero dell’amministrazione da chi dipenderebbero? Trovare del personale indipendente dopo quello che è successo a Gaza non è così facile. Anche il programma di deradicalizzazione è tutto da spiegare. Nella Striscia la radicalizzazione era già in atto prima del 7 ottobre e si è inasprita ancora di più. Quelle di Netanyahu sembrano affermazioni giusto per far vedere che sta pensando al dopoguerra. Non dice niente che possa essere accettabile dalla controparte. Neanche dall’Autorità Nazionale Palestinese. Poi c’è la zona cuscinetto, che si ricava nel territorio di Gaza, che era già una Striscia molto stretta e verrebbe ulteriormente ridotta.
Questa idea dei funzionari incaricati degli atti amministrativi (evidentemente di nomina israeliana) non può andare?
Mettono dei governatori palestinesi di loro fiducia? Certo, ci sono anche arabi israeliani, che sono rappresentati in parlamento. Non credo comunque che sia una cosa accettabile da parte dei palestinesi. Complessivamente la gestione di Gaza così ipotizzata è simile a quella dei tedeschi in Francia dopo l’occupazione; hanno messo dei francesi ad amministrare la Repubblica di Vichy. Rimane il problema che non ci sono due Stati, uno dei quali dovrebbe comprendere Gaza e Cisgiordania.
A cosa bisogna dare priorità per offrire una soluzione credibile alla questione palestinese?
È un po’ come in Ucraina: se nessuno dei due vuole cedere non si arriva a nessuna soluzione. Sta montando la polemica sullo sfruttamento dei giacimenti petroliferi al largo di Gaza, concessi da Israele ad alcune società, tra cui l’ENI, una decisione che ha fatto inalberare i palestinesi. Non si arriva a niente senza il rispetto della sovranità altrui.
Il piano prevede la cancellazione dell’UNRWA, l’agenzia ONU per gli aiuti ai palestinesi, perché alcuni funzionari avrebbero avuto a che fare con il 7 ottobre. Un rifiuto che pesa?
Cancellare l’UNRWA significa non accettare la comunità internazionale. Sicuramente chi vive all’interno di Gaza è portato a prendere la parte di quelli con cui si relaziona tutti i giorni. Bisogna fare in modo che ci sia dialogo e che si trovino le condizioni per portare gli aiuti. Gaza di fatto è un grande campo profughi: a tre quarti di secolo dalla formazione di Israele ci sono milioni di palestinesi che vivono in campi profughi sostanzialmente grazie agli aiuti internazionali.
Israele dice che vuole dare priorità alla sua sicurezza. Una posizione comprensibile?
Il bisogno di sicurezza ce l’hanno anche i palestinesi che vivono in Cisgiordania, che vedono arrivare i coloni ad occupare le loro terre, tagliare i loro ulivi, cementificare le sorgenti d’acqua. Se non si riconosce agli altri il diritto alla sicurezza che ogni Paese ha, naturalmente anche Israele, non si arriva a nessuna normalizzazione. Lo stesso succede a Gaza dove la gente non ha libertà di movimento e dipende continuamente dalle decisioni israeliane.
A che condizioni gli israeliani potrebbero accettare i palestinesi come interlocutori?
Questo conflitto va avanti da quasi 80 anni. La realtà è che non c’è soluzione, ci hanno provato in tanti, a partire da Arafat e Rabin fino a Trump e Netanyahu. Se non si riconosce dignità alla controparte ci si prende a randellate. Se gli israeliani vogliono che la Cisgiordania sia abitata dai loro coloni non c’è soluzione.
Un’ANP riformata, con volti nuovi che provengono dal mondo delle professioni, potrebbe diventare una controparte credibile?
L’ho già vista questa soluzione: mi viene in mente Karzai in Afghanistan, diventato presidente perché era uomo d’affari legato al mondo americano. La pretesa di imporre dall’esterno una leadership può avere conseguenze negative. Ci vuole rispetto tra le parti, lasciando che ognuno scelga i suoi governanti. E una volta definito chi amministra legittimamente ci si può sedere a trattare. Anche i palestinesi, e non solo Hamas, non vogliono Israele, ma se non c’è riconoscimento reciproco ci si prende a cannonate.
Ma perché l’Autorità Palestinese non riesce a gestire la situazione?
Tutti vorrebbero che l’ANP governasse i palestinesi, ma se facessero le elezioni probabilmente le perderebbero anche in Cisgiordania. È percepita come qualcosa messa lì per amministrare, ma senza avere la capacità di difendere le prerogative del popolo che rappresenta. L’ANP non è credibile, non riesce neanche a difendere le piccole comunità della Cisgiordania, non ha forze armate ma solo una polizia, che però quando arriva l’esercito israeliano si ritira. Allora la gente si rivolge ad Hamas. Per evitare questo bisogna ricostruire un rapporto di fiducia che adesso non c’è.
(Paolo Rossetti)
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