Gli israeliani sembrano pronti a un attacco in Libano: vogliono che Hezbollah indietreggi per creare una fascia di sicurezza al confine. Ma, nonostante le loro bellicose intenzioni, fino a che gli USA non li sosterranno, non si lanceranno in un attacco. Biden, d’altra parte, spiega Renzo Guolo, ordinario di sociologia della religione all’Università di Padova, esperto di islam e fondamentalismi, ha altro a cui pensare: deve convincere il suo elettorato di non essere schiacciato su Israele e, per questo, ripropone l’idea di uno Stato palestinese, anche se smilitarizzato. Per realizzarlo, secondo il volere degli americani, Israele dovrebbe però cambiare governo: Netanyahu non vuole affatto riconoscere la sovranità statale ai palestinesi.
Resta poi il tema della tregua: le parti sembrano ancora lontane da un accordo. Potrebbero realizzare solo la prima fase dello scambio, quella relativa ai soggetti più fragili; per gli altri si aspetterebbe di chiarire questioni fondamentali come il cessate il fuoco definitivo e la liberazione di tutti gli ostaggi in cambio di tutti i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane.
Gli israeliani continuano a presentare come imminente un attacco in Libano: vogliono che Hezbollah torni a nord del fiume Litani e che si crei una zona di sicurezza con Israele. Il pericolo di un allargamento del conflitto in questa zona è così serio?
Nella nuova dottrina della sicurezza israeliana dopo il 7 ottobre, c’è un principio secondo il quale ai confini non devono esserci movimenti che possono mettere in pericolo la sicurezza dello Stato. Questo spiega quello che Israele sta facendo a Gaza, dove, in prossimità della frontiera, vengono sgomberate delle aree, anche con minamenti, proprio per ricavare fasce di sicurezza. Anche a nord c’è l’idea che Hezbollah non possa rimanere al confine, come era stato stabilito da una risoluzione dell’ONU seguita al conflitto del 2006.
Quindi cosa vuole fare Tel Aviv?
L’input di Netanyahu è stato di predisporre delle fasce di sicurezza che ricacciassero indietro sia Hamas sia Hezbollah. Quest’ultimo, però, pur avendo una sua autonomia, ha un legame storico, religioso, strategico e politico molto forte con l’Iran, visto che è nato come proiezione del khomeinismo iraniano. È il perno di tutto il sistema libanese. È al governo a tutt’oggi ed è espressione della comunità più numerosa demograficamente, quella sciita. Attaccare Hezbollah è attaccare l’intero Libano.
Un attacco in Libano comporterebbe un allargamento significativo della guerra: come mai finora non si è verificato?
Gli USA premono perché l’allargamento non ci sia. Il conflitto avrebbe una dimensione difficilmente controllabile, con un potenziale coinvolgimento anche iraniano. Netanyahu punterebbe, come con Hamas, all’eradicazione totale di Hezbollah dal punto di vista militare, perché da quello politico e ideologico è molto più difficile. L’amministrazione Biden, invece, sta cercando di gettare acqua sul fuoco.
L’escalation sarebbe l’effetto di questa “politica del cuscinetto”, delle fasce di sicurezza, varata da Netanyahu?
Una politica che non è solo un invito al nemico a farsi più in là, a tornare indietro di qualche chilometro: se si scatenasse un conflitto, bisognerebbe andare fino in fondo. L’obiettivo non sarebbe far arretrare Hezbollah e bombardare i quartieri sciiti di Beirut, ma la replica della versione Gaza, il tentativo di distruggere totalmente Hezbollah, che però è molto più armato di Hamas e otterrebbe rifornimenti iraniani. Sarebbe un conflitto molto più largo, difficile da combattere senza la copertura degli americani. Per ora il loro consenso non c’è. Se manca, il Libano non si attacca, perché vorrebbe dire combattere con l’Iran.
Gli americani hanno fatto trapelare la possibilità da parte loro di riconoscere uno Stato palestinese. È un’idea che ha le gambe?
Per Biden è un anno elettorale e, se si schiacciasse sulle posizioni israeliane, rischierebbe di perdere l’elettorato musulmano degli swing states, Michigan e Ohio soprattutto, dove ci sono grandi comunità arabe e somale che non voteranno per Trump ma potrebbero astenersi. Ora, tutti sanno che realizzare solo una tregua, pur importante dal punto di vista umanitario, non risolverebbe alcunché: Biden ha ripreso la questione dei due Stati anche se sa che difficilmente potrà concludersi entro novembre, data delle presidenziali Usa, mentre potrebbe essere oggetto di un suo nuovo mandato se vincesse le elezioni. Tutti sanno che questa ipotesi è sempre più complicata, ma allo stesso tempo è l’unica perseguibile.
Quali condizioni si devono verificare per cercare di realizzare uno Stato palestinese accanto a Israele?
Implicherebbe un cambio di maggioranza in Israele. I rapporti tra Biden e Netanyahu sono ai minimi termini. Gli USA preferirebbero come interlocutore Benny Gantz o un altro centrista.
Da una parte, Netanyahu non accetterà mai uno Stato palestinese; dall’altra, si chiede la fine della guerra e la soluzione della questione palestinese. Dove si può trovare un punto di equilibrio?
Potrebbe essere la garanzia internazionale di una serie di Stati, a partire dagli USA e comprendendo i Paesi del Golfo e l’Egitto. Quelli cioè che dovrebbero farsi carico di una Palestina demilitarizzata almeno per due o tre anni, fino a che i palestinesi senza Hamas saranno in grado di esercitare la sovranità statale. Una condizione che dovrebbe accompagnarsi al collasso del governo Netanyahu. Gli USA non possono determinarlo ma possono concorrere a farlo succedere. Se Gantz uscisse dal governo, destra e Likud avrebbero la maggioranza di seggi, ma sarebbe una situazione politicamente insostenibile: salterebbe la questione dell’unità nazionale ed esploderebbe ancora di più la vicenda degli ostaggi. Gli Stati Uniti possono condizionare Israele chiudendo il rubinetto delle forniture militari o finanziarie, o almeno rallentandolo temporaneamente, fino a costringere la leadership israeliana a un atteggiamento di moderazione o a decidere di andare alle elezioni per verificare chi è davvero in maggioranza.
Quindi bisogna forzare la mano a Israele?
Non c’è altra soluzione. Se l’America ha davvero l’interesse a perseguire gli obiettivi che dice di avere, non può che tentare di forzare; se si limita agli auspici, è chiaro che la linea Netanyahu è la continuazione della guerra, sperando che vinca Trump in modo che cambi la politica americana.
La tregua Israele-Hamas sembra che sia sempre sul punto di essere firmata. Ma sono davvero tutti d’accordo?
Ad Hamas potrebbe far comodo avere una pausa di sei settimane, ma dovrebbe tenersi una carta di riserva: non se ne farebbe nulla se si trovasse Gaza sigillata senza aver più gli ostaggi da spendere. Cercherà di centellinare o di avere uno scambio ostaggi-prigionieri, non uno contro tre ma tutti contro tutti.
La regola sembra ancora un ostaggio per tre prigionieri. La cambieranno?
Sarà così per la prima fase, ma probabilmente gestiranno la vicenda in due fasi e quella finale, dei soldati e dei prigionieri politicamente eccellenti, potrebbe essere giocata all’interno di una logica tutti contro tutti. Per Hamas è fondamentale il ritiro delle truppe israeliane. L’unico punto su cui le parti sono d’accordo probabilmente è quello degli ostaggi fragili, i primi da liberare. Potrebbe nascere uno scambietto: sulla parte che riguarda le questioni più importanti (cessazione delle ostilità e scambio fra tutti gli ostaggi e tutti i prigionieri palestinesi), la distanza è ancora lunga. Hanno parlato di uno scambio in tre fasi, può darsi che la prima si realizzi; sulle altre, staremo a vedere.
(Paolo Rossetti)
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