La novità di ieri è che il presidente americano Biden ha annunciato l’esistenza di una road map che prevederebbe tre fasi: una prima fase di 6 settimane, con il cessate il fuoco completo, il ritiro dell’IDF dalle aree popolate di Gaza, il rilascio di ostaggi in cambio di prigionieri palestinesi e la possibilità per i gazawi di tornare nelle loro case. La fase due vedrebbe la fine delle ostilità; la fase tre sarebbe dedicata alla ricostruzione della Striscia. Hamas ha valutato in modo “positivo” il discorso di Biden. Esso ovviamente presuppone il consenso del governo di guerra israeliano. Netanyahu tuttavia, ha dichiarato che “la guerra non finirà finché non saranno raggiunti tutti gli obiettivi prefissati”, e tra questi “l’eliminazione dei miliziani e del governo di Hamas”.
Solo il tempo e i possibili sviluppi potranno dire se le dichiarazioni di Biden preludono ad una proposta realistica o sono solamente un’operazione elettorale. Tutto questo avviene mentre alcuni reparti dell’IDF sono già nel centro di Rafah.
Proprio Netanyahu intanto torna in testa nei sondaggi. Gantz lo insidia e vuole elezioni anticipate. Ma il vero problema è che Israele non ha chiaro il futuro di Gaza e neanche il suo. Tanto che, come spiega Paola Caridi, saggista e presidente di Lettera 22, molti commentatori nel Paese pongono il problema della sussistenza dello Stato di Israele, in pericolo non a causa dei palestinesi, ma per le dinamiche interne alla società israeliana. Manca una strategia e si pensa che la questione palestinese potrà essere trattata come prima del 7 ottobre. La guerra a Gaza, invece, è una cesura con il passato e senza uno Stato palestinese il futuro sarà sempre incerto. Il problema, però, è che nella classe politica israeliana nessuno lo vuole: Netanyahu è stato eletto più volte proprio per questo.
Un sondaggio di Canale 12 dice che Netanyahu è tornato in testa alle preferenze con il 36% dei consensi rispetto al 30% di Gantz: gli israeliani approvano ciò che è stato fatto finora nella guerra a Gaza?
La narrazione in questi mesi è sempre stata che c’era un colpevole da parte israeliana, ed era Netanyahu. Ma così non si dà conto di quello che è Israele. Il primo ministro nel 2022 ha vinto per la sesta volta le elezioni e ha ottenuto una maggioranza su una posizione nei riguardi dei palestinesi che è rimasta la medesima: non ci sarà uno Stato di Palestina, Gaza sarà congelata, la Cisgiordania è il simulacro di uno Stato palestinese, perché al suo interno (compresa Gerusalemme est) ci sono 750mila coloni israeliani. Il sondaggio citato rimette a posto i pezzi del mosaico come era prima, siamo noi occidentali che non lo abbiamo visto. Le manifestazioni in Israele in cui si chiedono il rilascio degli ostaggi e la fine dei bombardamenti a Rafah mettono in gioco poche persone.
Vuol dire che gli israeliani si sono già dimenticati il 7 ottobre e le responsabilità del primo ministro?
No, è una ferita profondissima che non sarà superata. Israele non si è lasciato alle spalle neanche il 6 ottobre 1973, la guerra dello Yom Kippur, figurarsi una cosa terribile come è stato il 7 ottobre. Ma la colpa non è solo di Netanyahu: sono corresponsabili Gallant, Smotrich, Ben Gvir. Pensare che sia il solo colpevole è un pensiero degli osservatori, più che della società israeliana.
Ora il premier ha un rivale anche nel governo di unità nazionale, il generale Benny Gantz. È un avversario temibile?
La società israeliana conosce bene anche lui: nel 2014 aveva detto che voleva riportare Gaza all’età della pietra. Dal punto di vista dell’uso della forza militare non è diverso da Netanyahu. Gli israeliani non vedono questa grande differenza: Gantz ha partecipato a governi a guida Netanyahu.
Gantz ha posto un ultimatum al governo chiedendo di chiarire i piani per il futuro di Gaza entro l’8 giugno, e ha presentato una legge per sciogliere la Knesset e andare a elezioni. Fosse lui il capo del governo penserebbe a uno Stato palestinese?
Nella classe politica israeliana le persone che pensano a uno Stato palestinese sono veramente poche. Sono nella parte estrema della sinistra e in parte, ma molto poco, nei laburisti. Nessuno sa cosa fare, sembra che il tentativo sia quello di tornare al “business as usual”. La linea è “continuiamo come abbiamo sempre fatto”. Cioè la linea Netanyahu: ogni tanto si approva una colonia in Cisgiordania, la comunità internazionale protesterà per il mancato rispetto delle risoluzioni ONU, ma poi non succederà nulla. Nessuno capisce, però, che non è più possibile tornare a quella situazione: nella cornice dei Paesi arabi, anche quelli come Egitto, Arabia Saudita e Giordania, che non sono contro Israele come l’Iran, nessuno vuole tornare indietro. Si rendono conto che senza uno Stato di Palestina è a rischio anche l’esistenza di Israele. Lo ha detto anche il ministro degli Esteri saudita: non può esistere uno Stato di Israele senza uno Stato di Palestina.
Israele rischia la sua fine perché su questa strada va verso il muro contro muro con tutti i Paesi dell’area?
Come dicono molti opinionisti israeliani, il problema dell’esistenza di Israele non viene dai palestinesi ma dall’interno della società israeliana. L’ultimo articolo di questo tono è uscito su Haretz, ma ne sono stati pubblicati a decine. Non avendo una strategia che riconosca la Palestina come parte del territorio non è che si può andare molto lontano. E tuttavia è già difficile considerare realizzabile l’ipotesi dei due Stati: lo Stato della Palestina dove viene costruito? Su un pezzo di Cisgiordania in cui l’esercito israeliano ha messo a fuoco il più grande mercato di Ramallah, cuore dell’ANP? A Gerusalemme Est in cui i palestinesi non hanno diritti politici? A Gaza, distrutta per l’80% e dove il 100% della popolazione è profuga? Questo vuol dire chiedersi che cosa è Israele nei confronti dello Stato di Palestina. Senza una strategia, neanche per la campagna militare, il rischio viene dall’interno di Israele.
Ma gli israeliani non si accorgono di questo clima?
Ayman Safadi, ministro degli Esteri giordano, forse il migliore della regione, lo ha detto in tutte le salse: il rischio di una instabilità regionale che è già nei fatti viene aumentato da quello che Israele sta facendo. L’attacco nei confronti di Israele è durissimo. Nessun Paese arabo ha attaccato, tanto che i palestinesi dicono: “I nostri fratelli arabi non ci hanno aiutato, non hanno usato lo strumento militare”. E su questo Israele dovrebbe riflettere. Neanche Iran ed Hezbollah hanno attaccato con tutta la loro potenza di fuoco, ma quanto può durare una situazione in cui viene annichilita un’intera popolazione a Gaza?
Eppure ora molti sono tornati a sostenere Netanyahu.
Israele non vede quello che sta succedendo a Gaza, ha buttato fuori Al Jazeera dal Paese, ed era una voce che faceva vedere quello che accadeva nella Striscia. Dopodiché il pubblico poteva farsi un’opinione mettendo a confronto due narrazioni, una fatta da giornalisti, l’altra da giornalisti e ciò che fornisce come immagini l’IDF. Gli israeliani non vedono quello che sta succedendo a Gaza, c’è una censura militare, non c’è un altro racconto. Il sondaggio che vede Netanyahu in testa è fatto in un Paese in cui quello che succede a Gaza da otto mesi non viene mostrato.
Dall’altra parte, però, c’è una crisi della leadership che rischia di condannare i palestinesi alla sconfitta. C’è stato un tentativo da parte dei russi di riunire tutte le fazioni palestinesi. Manca un soggetto politico spendibile?
Le colpe dei palestinesi ci sono tutte. La narrazione secondo cui non si può fare uno Stato palestinese perché non c’è una governance spendibile va avanti da decenni. Sono 17 anni che Gaza è stata blindata: Hamas ha fatto un colpo di mano, aveva vinto le elezioni nel 2006 per il parlamento dell’ANP, ma la sua era una governance attorno alla quale c’era un embargo, perché non riconosce Israele. Nessuno, tuttavia, se n’era accorto prima delle elezioni. Tutti, compreso Israele, hanno consentito che si presentasse alle elezioni. La comunità internazionale, che aveva posto le regole, poi le ha fatte saltare. La politica in Palestina viene esercitata in un posto che è occupato, non è un Paese come Italia, USA, Israele stesso.
Ma l’unità dei palestinesi si può ricostruire?
La riconciliazione fra Fatah, Hamas e tutte le altre fazioni palestinesi è un processo infinito da quando Cisgiordania e Gaza si sono staccate anche dal punto di vista politico. E si fondava sull’ingresso di Hamas nell’OLP che, pur essendo una scatola vuota, permette la presenza dello Stato di Palestina all’ONU. La governance unificata senza l’OLP non si riesce a fare. Ci ha provato la Russia e anche la Cina. Noi occidentali no, perché Hamas è nella lista nera, ma altri ci provano. Se parliamo di governance, però, non possiamo pensare che non passi da una riconciliazione. Il tentativo di Mahmoud Abbas di imporre un primo ministro come Mohamed Mustafa senza una concertazione con Hamas e le altre fazioni dell’OLP avrà poco respiro, non riuscirà nemmeno a far immaginare un futuro su Gaza e Cisgiordania.
(Paolo Rossetti)
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