Israele non vuole riconoscere ad Hamas un ruolo in Palestina nel dopoguerra. Motivo per cui l’organizzazione palestinese, invece di accettare una tregua di sei settimane come ipotizzato dagli USA, punta sul cessate il fuoco definitivo come condizione irrinunciabile per un accordo. E così, spiega da Amman Filippo Landi, già corrispondente Rai a Gerusalemme e inviato del TG1 Esteri, l’intesa che doveva arrivare prima del Ramadan resta di là da venire. Prevalgono, insomma, le ragioni politiche: Hamas che cerca di sopravvivere e Israele che usa il blocco degli aiuti umanitari per forzare la mano al nemico. Intanto nella Striscia ci sono due milioni di persone che ogni giorno lottano per trovare da mangiare. Una situazione che sta inguaiando Joe Biden. Anche in Medio Oriente ormai si parla di una sua sostituzione come candidato presidente con Michelle Obama o Gavin Newsom. Pesa il 92% della comunità musulmana americana, orientato ad astenersi in virtù della politica americana nella guerra israelo-palestinese.
Biden vuole controllare che le armi americane non vengano usate per un attacco a Rafah da parte degli israeliani. Stavolta ha paura che Netanyahu passi veramente il segno?
Il Pentagono conferma che la Casa Bianca ha chiesto un elenco delle armi ancora non consegnate a Israele in forza di precedenti accordi. Ma specifica che non è l’indicazione di un ripensamento sull’invio. È chiaro, tuttavia, che questa richiesta di informazioni è un messaggio: vuol dire che la destinazione finale delle armi può essere cambiata.
Non l’hanno detto ufficialmente a Israele ma lo hanno fatto capire?
Quello che è stato detto è in un’intervista rilasciata al Washington Post da Mark Indyk, ex ambasciatore USA in Israele: se verrà lanciata un’offensiva terrestre su Rafah senza un realistico piano di salvaguardia dei civili, si aprirà una crisi nelle relazioni tra Israele e gli Stati Uniti che non ha precedenti nella storia.
Biden, d’altra parte, ha un problema: una parte del suo elettorato non può accettare che gli USA assecondino in tutto e per tutto Israele.
A giugno sembra che i democratici si stiano orientando a cambiare cavallo: il candidato alle presidenziali 2024 non sarà più Biden ma Michelle Obama o Gavin Newsom, il governatore della California. Le voci sono arrivate anche qui ad Amman, in questi giorni crocevia di politici ed esperti di aiuti internazionali. È uscito un sondaggio per cui il 92% degli americani di fede musulmana sono contro Biden per la sua politica di sostegno a Israele. Una forza sufficiente, anche se si astengono, a far crollare il presidente. La disaffezione di una parte importante dell’elettorato si aggiunge ai problemi di età e di salute dell’attuale presidente e anche al peso dell’inflazione.
Nei giorni scorsi Benny Gantz è volato negli USA. Alla fine dei suoi colloqui ha parlato della necessità di un’amministrazione internazionale che si appoggi ai Paesi dell’area per il futuro di Gaza. Lo hanno chiamato per riferire a Netanyahu che questa è la nuova linea?
No. La presenza di Gantz a New York e a Londra è per verificare se esiste la possibilità di salvaguardare i civili in caso di un attacco terrestre voluto da Netanyahu e dal suo governo: il timore di un ulteriore bagno di sangue è molto forte nell’amministrazione USA e in tutti coloro che hanno sostenuto Israele. L’ipotesi sul controllo di Gaza è un cambio di passo: si era detto che dopo la guerra si doveva avviare un processo verso uno Stato palestinese, nel quale l’ANP si era dichiarata disponibile a controllare Gaza in un piano che comprendeva anche Gerusalemme Est e Cisgiordania. Di fronte all’esecutivo israeliano che ha dato il via libera ad altre 3.500 case per le famiglie di coloni in Cisgiordania, la prospettiva di uno Stato palestinese, però, è molto precaria. Ecco allora la proposta di affidare a un pool di Stati il controllo dell’area, ma è un’idea americana che si scontra con la necessità di entrare in un territorio dove si andranno ad amministrare solo macerie. Il timore è che si crei un Vietnam permanente in Medio Oriente.
Come ha reagito Netanyahu all’invito degli USA a Gantz?
Ha ribadito che esiste un solo primo ministro e che Gantz al momento non lo è. Quello che dice non è espressione del governo, al quale partecipa solo come componente del gabinetto di guerra, non come ministro.
È come dire, da parte USA, che non hanno più fiducia in Netanyahu. Esprimerlo in questo modo significa che la frattura ormai è troppo profonda?
Anche Netanyahu non intende dare a Gantz l’opportunità di un futuro governo nazionale questa volta guidato dal generale. L’attuale premier può continuare a governare senza di lui, perché ha 64 voti garantiti dalla vecchia maggioranza. Il governo di unità nazionale a cui Gantz ha aderito è finalizzato alla gestione del conflitto, ma dal punto di vista parlamentare Netanyahu ha i numeri per restare dov’è.
La reazione del premier israeliano, quindi, significa che al di là delle simpatie americane per Gantz lui rimarrà a capo del governo?
Rimarrà fin quando non ci saranno nuove elezioni che sono previste fra due anni. Nella frattura fra Biden e Netanyahu contano anche altri elementi. Il principale è la decisione degli israeliani di usare il blocco degli aiuti umanitari per condizionare le trattative che si svolgono al Cairo per la tregua, tentando così di spingere Hamas a cedere.
Le trattative per la tregua e lo scambio degli ostaggi con i prigionieri palestinesi sono in fase di stallo. Quali sono i nodi da sciogliere?
Gli elementi sono molti, uno sicuramente è la durata della tregua, che per Hamas deve essere un vero e proprio cessate il fuoco mentre per gli americani e gli israeliani deve durare sei settimane, poco più del Ramadan. L’altro argomento su cui verte la discussione sono i prigionieri da rilasciare dalle carceri israeliane, più tutta una serie di altri elementi che riguardano l’ingresso e la gestione di aiuti. Oggi sono bloccati o procedono a singhiozzo. Sono entrati 270 camion dopo mesi di blocco: un numero comunque insufficiente, come lo sono i lanci con il paracadute, che dimostrano l’impotenza a gestire anche gli elementi di base di un’assistenza umanitaria.
Perché Hamas, dopo qualche apertura, insiste per un cessate il fuoco definitivo?
La vera pressione su Hamas è quella determinata dal bisogno della popolazione, che cresce in forza dell’assenza degli aiuti umanitari. Dal punto di vista militare ha dimostrato di poter ancora attaccare nel Nord della Striscia. Sono presenti in forze. Hamas, però, non vuole rinunciare a giocare un ruolo politico in futuro, non solo a Gaza. Mentre Israele sta cercando, contro questa eventualità, di spingere l’ONU a definire Hamas un’entità terroristica, cosa che le Nazioni Unite non hanno mai fatto con nessuno, non avendone giuridicamente la possibilità.
Di fronte alle sofferenze dei palestinesi Hamas non potrebbe cercare una soluzione di compromesso per dare sollievo a persone che faticano a trovare da mangiare?
Sì, tutto si può fare e tutto ha un prezzo. Hamas è stata disponibile a una tregua limitata di sei settimane. La condizione era che ci doveva essere l’apertura a una soluzione di carattere politico. Nel momento in cui Israele decide che non c’è nessuna ipotesi di Stato palestinese, né la possibilità di un controllo dell’ANP su Gaza o quella dell’entrata di Hamas nell’OLP, affossa la possibilità di una tregua limitata nel tempo. Di qui la scelta dell’organizzazione palestinese di chiedere il cessate il fuoco definitivo.
Anche per Hamas prevalgono, quindi, le ragioni della politica su quelle umanitarie?
Sì. Si rendono conto che le condizioni in cui vive la popolazione della Striscia diventano insopportabili a Washington come a Londra e Parigi. La morte per fame è un elemento che l’opinione pubblica europea e americana non può accettare. Non si capisce, comunque, se nonostante questo, Israele abbia deciso di rilanciare sul piano militare come l’ex ambasciatore americano Indyk ha ipotizzato.
(Paolo Rossetti)
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