Ieri i giudici hanno detto no all’abolizione della clausola di ragionevolezza, punto centrale della riforma della giustizia voluta da Netanyahu e dal suo governo, che di fatto avrebbe dato mano libera all’esecutivo rendendo le sue decisioni non più impugnabili dalla Corte suprema. La stessa Corte che ora si è opposta all’emendamento approvato dalla Knesset e avversato da gran parte dell’opinione pubblica, anche da settori dell’elettorato che ha sostenuto i partiti del governo di centrodestra, allarmata dalla prospettiva di una possibile deriva autoritaria. La decisione è passata con una risicata maggioranza, che riflette dunque la spaccatura da mesi evidente nel Paese.
La clausola toglieva alla Corte suprema la potestà di decidere sulle leggi proposte dal governo e approvate dal parlamento e quindi la possibilità di poterle invalidare se riconosciute irragionevoli.
Il pronunciamento della Corte, spiega Filippo Landi, già corrispondente Rai da Gerusalemme e poi inviato del Tg1 Esteri, probabilmente non influirà sulla gestione della guerra da parte di Netanyahu ma indebolisce il governo nei confronti dell’amministrazione Biden, da sempre contraria alla riforma della giustizia proposta da Netanyahu, e crea qualche preoccupazione in più al premier, soprattutto in vista dei procedimenti giudiziari che lo attendono per episodi che riguardano la sua attività come ministro.
La gestione del conflitto continuerà come prima, secondo una linea che non incontra resistenze da parte degli Usa, e che di fatto tende, con la distruzione di Gaza, a fare in modo che i palestinesi lascino la Striscia.
La decisione della Corte suprema è un duro colpo per Netanyahu. Per difendere la sua riforma della giustizia aveva sfidato le piazze, riempitesi a più riprese per protestare contro la sua proposta. Cosa significa il pronunciamento dei giudici e cosa cambia nella politica israeliana?
La decisione della Corte è un colpo alla strategia del governo Netanyahu e nel contempo mostra che la profonda spaccatura che c’è nel Paese divide la stessa Corte; infatti l’emendamento diventato legge fondamentale, voluto da Netanyahu e approvato dalla Knesset, è stato cancellato con 8 voti contro 7. È una decisione che arriva in ritardo: l’opposizione l’aveva chiesta e sollecitata a più riprese, era attesa ben prima di ottobre. Ora comunque non cambia l’andamento del conflitto, semmai indebolisce politicamente il governo che però non viene minato nella sua completa credibilità così come sarebbe accaduto prima del conflitto con Hamas.
Il governo, visto il particolare momento che sta vivendo il Paese, avrebbe chiesto alla Corte di non rendere pubblica subito la notizia: segno che teme comunque delle ripercussioni negative sull’esecutivo anche nella gestione della guerra?
Non credo che questa decisione inciderà sul conflitto più di tanto, semmai incide su altri due elementi. Il primo è il rapporto con gli Stati Uniti e con l’amministrazione Biden, che a suo tempo aveva invitato a non portare a compimento l’approvazione da parte della Knesset del cosiddetto emendamento: il pronunciamento indebolisce Netanyahu di fronte agli americani. Il secondo elemento è che indebolisce Netanyahu anche per quello che potrà succedere dopo la fine della guerra, quando in un’aula di Tribunale si dovrà discutere di quello di cui il premier è accusato, in particolare di aver coartato le sue decisioni quando era ministro della Comunicazione a favore di un noto miliardario suo sostenitore.
L’incapacità di prevedere l’attacco del 7 ottobre ha minato la credibilità personale di Netanyahu. Un elemento che può averlo danneggiato davanti alla Corte chiamata a esprimersi su una riforma fondamentale del suo programma politico?
Non bisogna dare alla vicenda del 7 ottobre un peso che invece è tutto dentro il presente e il futuro dello Stato di Israele così come il nuovo governo di centrodestra lo voleva delineare e che aveva incontrato una fortissima opposizione all’inizio del 2023, ben prima del 7 ottobre. Era l’opposizione di un arco dell’opinione pubblica che attraversava anche una parte del centro e persino della destra.
Gli Usa di fatto avevano spinto perché Netanyahu non andasse avanti con la sua riforma della giustizia. Ora che la Corte indirettamente ha dato ragione anche a loro, potranno aumentare l’influenza sul governo per quanto riguarda la conduzione della guerra?
In via teorica sì, ma in realtà la figura centrale del segretario di Stato americano Anthony Blinken ha portato l’amministrazione Biden a scegliere un percorso che punta non solo alla distruzione delle capacità militari di Hamas, ma sta riducendo Gaza (e in parte lo ha già fatto) a un ammasso di rovine in cui è molto difficile immaginare una permanenza dei palestinesi in un territorio così devastato. Quello che hanno detto autorevoli ministri del governo israeliano, in primo luogo Smotrich, e cioè che è preferibile che i palestinesi se ne vadano spontaneamente, è un fatto che l’amministrazione Usa ha cercato di perseguire, incontrando la resistenza fortissima di Egitto e Giordania. Non ha mai indicato percorsi alternativi che passassero attraverso una trattativa di pace, un cessate il fuoco.
Lo ha fatto forse a parole ma poi ha lasciato campo libero a Israele per fare quello che voleva?
Neppure a parole. L’unica cosa è stata la riproposizione, più sotto forma di slogan che di realtà, della formula due Stati due popoli. Ma nel momento in cui i blindati israeliani ogni giorno entrano anche a Ramallah gettando discredito su quello che rimane dell’Autorità nazionale palestinese, non c’è nessuno spiraglio per cui l’ANP possa essere protagonista di un percorso di pace. E in questo contesto Gerusalemme resta un punto dirimente: i palestinesi non possono accettare nessun accordo di pace che non comprenda il futuro della città.
(Paolo Rossetti)
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