Si parla di una tregua di 48 ore per liberare quattro ostaggi a Gaza e di una trattativa per fermare il conflitto in Libano, dando 60 giorni alle parti per porre le basi dell’attuazione della risoluzione 1701 dell’ONU, che prevede una zona demilitarizzata al confine con Israele. Un piano in cui esercito libanese e ONU svolgerebbero un ruolo importante. In realtà, osserva Filippo Landi, già corrispondente Rai da Gerusalemme e poi inviato del Tg1 Esteri, non bisogna dimenticare che i democratici USA hanno bisogno dei voti in Michigan della comunità arabo-musulmana e che le trattative vanno viste anche in questo contesto. L’obiettivo vero di Israele resta di svuotare il nord di Gaza per metterci i suoi coloni, realizzando il piano sostenuto pubblicamente dal ministro Smotrich. Lo scenario potrebbe cambiare in base ai risultati delle elezioni USA. Occorre poi tenere conto del fatto che la guerra sta danneggiando gli interessi economici americani: Coca Cola e McDonald’s vengono boicottati in molti Paesi musulmani.
Una tregua a Gaza, un piano di pace in Libano. Trattative che possono andare in porto?
Siamo a ridosso delle elezioni americane, con il partito democratico che ha necessità di convincere le comunità arabo-musulmane di uno Stato chiave come il Michigan che la politica di Biden e della Harris in Medio Oriente potrebbe cambiare. Le elezioni avvicinano la possibilità di far tacere le armi e ne mostrano tutta la fragilità: Netanyahu, infatti, ha detto che non si parla di un cessate il fuoco a Gaza. Vuol dire che finiti i giorni di tregua si sentirà libero di riprendere le azioni militari, ma anche di iniziare il processo di nuova colonizzazione della Striscia che in questi giorni in Israele si è chiarito con più forza. L’idea, sostenuta dai partiti di destra, è di spingere nuovi coloni ebrei a Gaza con incentivi fiscali e altro.
Il negoziato per il Libano, invece, ha più possibilità di riuscire?
Mentre si discute di una mini-tregua a Gaza e di un presunto piano per il Libano, non ci dobbiamo dimenticare che mai come in queste ore i bombardamenti su entrambe le aree hanno raggiunto una violenza senza precedenti negli ultimi mesi. Israele vuole riaffermare la sua capacità distruttiva mentre la Knesset, su richiesta del governo, mette al bando l’UNRWA, l’organizzazione dell’ONU per l’assistenza dei palestinesi.
Qual è il significato politico di questa decisione?
C’è un atteggiamento contraddittorio da parte di Israele, a meno che non sia ricattatorio: chiedere alle Nazioni Unite di modificare le regole di ingaggio delle forze ONU in Libano, spingendole al confronto militare con Hezbollah, in cambio di una eventuale attenuazione del bando contro l’UNRWA. Il governo israeliano vive una profonda contraddizione: chiede all’ONU di implementare l’azione in Libano, ma gli impedisce di agire nelle aree dove c’è la maggior parte dei palestinesi. Senza dimenticare che ha messo al bando il segretario generale delle Nazioni Unite Guterres.
La trattativa sul Libano vedrebbe un nuovo ruolo per l’esercito libanese: può essere lo strumento adatto per pacificare il confine?
Altro discorso è il tentativo di coinvolgere le istituzioni politiche e militari libanesi in una nuova prospettiva, pensando di spostare l’esercito di Beirut al sud, ben consapevoli (gli israeliani lo sono, la comunità internazionale un po’ meno) che il nucleo fondamentale è sunnita e i militari dovrebbero andare a contrastare Hezbollah e una popolazione che nella parte meridionale del Paese è prevalentemente sciita. Potrebbe essere la premessa dell’ennesima guerra civile in Libano. Non credo che nessuno voglia spingere verso questo.
Hezbollah ha nominato Naim Qassem nuovo leader: si sta riorganizzando dopo le uccisioni dei capi?
Una nomina molto pragmatica. Come nel caso di Sinwar, viene indicata una persona che potrebbe essere il nuovo bersaglio degli israeliani: importante ma paradossalmente sacrificabile. Hezbollah ha dimostrato che l’omicidio di Nasrallah e dei suoi comandanti non ha ridotto la capacità operativa. Razzi e missili lanciati dal Libano hanno raggiunto molte basi militari israeliane e ogni volta che l’IDF penetra nel Libano del sud incontra una resistenza durissima: il numero di morti e feriti tra i suoi soldati si è innalzato vertiginosamente. Anche per questo è stata accentuata la violenza dei bombardamenti, in particolare a Tiro, con una caratteristica di vendetta e distruzione che non ha niente a che fare con gli obiettivi militari di Hezbollah.
Il ministro Smotrich in questi giorni ha chiesto di occupare Gaza e la Cisgiordania con altri coloni. Il collega di governo Gallant, invece, si oppone a un controllo diretto da parte di Israele della Striscia. Posizioni contrastanti che possono minare l’unità dell’esecutivo? Oppure la linea ormai è quella dei partiti di destra?
Non è un caso che il ministro della Difesa esprima riserve rispetto all’occupazione militare e civile di Gaza. Ricorda benissimo che il generale Sharon nel 2005 ritirò 8mila coloni da Gaza e i soldati israeliani presenti con il compito di proteggerli perché il livello di guerriglia e di morti e feriti nell’esercito era cresciuto a livello esponenziale. Gallant non vuole impantanarsi in un territorio dal quale gli israeliani furono costretti ad andare via per mettere fine a uno stillicidio di vittime tra le proprie fila.
Un pericolo che correrebbero anche oggi?
In realtà il piano che sarebbe in atto nel nord di Gaza, che prevede lo spostamento di 400mila palestinesi, indica che i militari stanno andando incontro alle richieste dei partiti di destra, svuotando questa parte della Striscia per trovarsi nei prossimi mesi in una situazione più facilmente controllabile dal punto di vista militare.
I coloni occuperebbero un’area vuota?
Nel 2005 la popolazione palestinese viveva tra le colonie; l’idea che qualche stratega sembra aver pianificato è di piantare le nuove colonie in un territorio svuotato dai palestinesi. Rimane una contraddizione tra quello che dice Gallant, che vorrebbe affidare ad ANP o un contingente arabo il controllo di Gaza, e coloro che già operano per realizzare il piano di Smotrich.
È questa la vera strategia israeliana?
Netanyahu, di fronte alla pressione egiziana per un mini-tregua a Gaza, ha ribadito che non ci sarà un cessate il fuoco: l’obiettivo è l’occupazione di Gaza svuotando il nord della Striscia.
Per capire gli scenari futuri occorrerà comunque aspettare le elezioni presidenziali USA?
Se vince Harris e rimane Blinken segretario di Stato, Netanyahu potrà continuare nella strategia-non strategia che ha seguito fin qui. Se vince Trump, le cose paradossalmente per lui potrebbero complicarsi: il candidato repubblicano ha previsto che la sua avversaria, se eletta, porterà gli Stati Uniti alla terza guerra mondiale. Un timore che c’è negli USA. Bisogna vedere se la sua intenzione è di aprire in Medio Oriente una trattativa come quella preannunciata per l’Ucraina, continuando a sostenere Israele ma con un atteggiamento pragmatico, di tutela degli interessi americani.
Netanyahu, d’altra parte, ha ribadito che dopo la guerra vuole stipulare accordi con i Paesi arabi. Lo dice anche nella prospettiva di una vittoria di Trump?
Ha capito che il possibile nuovo presidente americano ha uno sguardo che va oltre, che tiene conto degli interessi economici. Alla Borsa di New York, McDonald’s e Coca Cola si stanno leccando le ferite per il crollo delle vendite in Medio Oriente, nei Paesi musulmani e africani. Nella quasi totalità dei supermercati della Giordania, amica degli americani, è scomparso il marchio Coca Cola e le filiali McDonald’s sono vuote: gli Ad delle rispettive aziende hanno dovuto ammettere che il crollo è dovuto al boicottaggio che c’è in Medio Oriente da un anno.
(Paolo Rossetti)
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