Nel recente Documento Digntitas infinita del Dicastero per la Dottrina della Fede il tema centrale è quello della infinita dignità umana e in questa prospettiva al punto 55 si afferma: “La Chiesa desidera, innanzitutto, ribadire che ogni persona, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto, con la cura di evitare ogni marchio di ingiusta discriminazione e particolarmente ogni forma di aggressione e di violenza”. Subito dopo, al punto 56, il Documento afferma: “Nello stesso tempo la Chiesa evidenzia le decise criticità presenti nella teoria gender” e parla di vere e proprie colonizzazioni ideologiche, sottolineando quanto sia pericolosa, anzi pericolosissima, la teoria gender perché cancella le differenze nella pretesa di rendere tutti uguali. Non solo la Chiesa, ma anche la comunità scientifica sembra nutrire forti perplessità davanti ad una teoria che nega la più grande tra tutte le differenze possibili: quella sessuale (p. 58). E per definire la profondità e l’intensità di questa differenza il testo utilizza quattro aggettivi che delineano l’assoluta unicità del senso e del significato di questa differenza: la più bella, la più potente, la più ammirevole, la più grande che si possa immaginare, fonte di quel miracolo che mai smette di sorprenderci, che è l’arrivo di nuovi esseri al mondo.



L’ideologia gender, mentre pretende di proporre e di imporre nuovi diritti, prospetta una società senza differenze di sesso e svuota la base antropologica della famiglia. Vita e famiglia, dimensioni essenziali in ogni società, nella teoria gender perdono la loro specifica identità e rendono sterile ogni prospettiva di futuro. Sesso e genere si possono certamente distinguere, se con il primo si fa riferimento alla dimensione biologica e con il secondo alla dimensione socio-culturale, ma non si possono separare. La differenza sessuale tra uomo e donna resta di fatto ineliminabile. Già nell’Amoris Laetitia Papa Francesco aveva affermato: Non possiamo separare ciò che è maschile e ciò che è femminile dall’opera creata da Dio, che è anteriore a tutte le nostre decisioni ed esperienze e dove ci sono elementi biologici che è impossibile ignorare. E il Documento sulla infinita dignità umana termina questo paragrafo, affermando: “Ogni persona umana, soltanto quando può riconoscere ed accettare questa differenza nella reciprocità, diventa capace di scoprire pienamente se stessa, la propria dignità e la propria identità”.



Una teoria che condiziona

La differenza sessuale nella sua dimensione biologica costituisce quindi un fatto innegabile e ineludibile con cui occorre confrontarsi, prendendo atto della differenza che esiste tra i sessi, come di un dato che precede qualsiasi nostra decisione, mentre il genere è certamente influenzato dal contesto socio-culturale in cui viviamo. Eppure attualmente la teoria gender preferisce negare, o almeno sottovalutare la differenza sessuale, per esaltare quella dimensione che sembra fare riferimento in modo più fluido alla libertà di scelta dell’uomo e della donna, come se questa potesse esercitarsi senza tener conto della prima e primordiale differenza. In realtà il nocciolo duro della teoria gender non è la sessualità in sé, ma la libertà dell’uomo e della donna di autodeterminarsi rispetto all’altro, maschio o femmina che sia, e quindi decidere cosa fare di sé: chi essere e come essere.



È ben nota la vicenda della Tavistock Clinic di Londra dove nell’arco di pochi anni il numero delle persone, per lo più molto giovani, che hanno chiesto di intraprendere un itinerario di transizione di genere si è oggettivamente moltiplicato, al punto da far sorgere seri dubbi su come venissero fatte le diagnosi e attivati i trattamenti. I molti casi dubbi, spesso apertamente forzati, hanno condotto alla chiusura della clinica e alla sospensione dei programmi pseudo-terapeutici.  Qualcosa di analogo potrebbe accadere anche in Italia, dato il crescente numero di persone che accedono ai Centri appositamente dedicati a trattare casi e problemi di questa natura, e denunciano una forma di disforia di genere, per cui si sono moltiplicate le misure di prudenza e di controllo. Il paradosso è che solo un approccio a favore della transizione di genere è considerato scientificamente fondato e terapeuticamente accettabile. Qualsiasi altro approccio che parta dalla naturale incertezza, a volte una vera e propria ambiguità, con cui i giovani vivono la loro sessualità è classificato come coercitivo.

Viene meno tutta la consapevolezza dei potenti fattori di condizionamento che esercita il contesto socio-culturale in cui i giovani vivono. In realtà è una operazione uguale e contraria a quella che viene rimproverata a certi atteggiamenti educativi, imputati fino a qualche anno fa alla famiglia e alla Chiesa. Oggi il pressing culturale ha acquisito un diverso orientamento, opposto a quello precedente, ma non per questo il suo potere condizionante è inferiore. E questo, almeno in parte, giustificherebbe il crescere esponenziale dei casi di disforia di genere. Il punto di riflessione è che l’identità di genere non è un dato, ma un processo. E come tale va maturando nel tempo, con i classici passaggi dall’infanzia all’adolescenza, per maturare proprio grazie alle diverse esperienze che ragazzi e ragazze vanno facendo via via. Sono importanti tutti gli input che ricevono ad ogni età e che ne confermano l’identità sul piano fisico e sul piano emotivo, mentre acquistano progressivamente una propria dimensione culturale e valoriale.

In altri termini, se è vero che il genere ha un suo duplice fondamento tra natura e cultura, allora è determinante capire cosa si fa sul piano culturale per offrire loro la possibilità di fare esperienze che rafforzino la loro identità, sedimentandola in una progressiva autostima. Sono fondamentali le prime esperienze relazionali con la madre e il padre e la loro differenza di sesso e di genere esercita un forte imprinting sulla identità personale. I famosi congedi parentali, resi obbligatori anche per il padre, vanno letti in questa chiave e non servono solo al padre per fare esperienza del figlio, ma anche al figlio a fare esperienza del padre, con tutto il rinforzo positivo di quello straordinario mix che è la relazione di cura e il gioco.

Prevenzione del disagio

Non c’è dubbio che la disforia di genere crei una evidente sofferenza nel soggetto e nella sua famiglia e spesso coinvolge anche le esperienze scolastiche del ragazzo e della ragazza. Valutare se c’è spazio e tempo per una prevenzione efficace può essere un obiettivo importante, considerando il crescete diffondersi di un vissuto, non facile da comprendere e a volte difficile da accettare. Il figlio, la figlia, fanno esperienza della diversità del rapporto con la madre e con il padre e in qualche modo stabiliscono relazioni positivamente diverse con entrambi. È nel nucleo della vita di famiglia che matura la prima esperienza di percezione della diversità; se il genere è frutto e conseguenza, oltre che della propria sessualità, anche di questa ricchissima esperienza sociale, allora è lì che vanno rinnovati canoni e modelli educativi perché ogni bambino e ogni bambina si scoprano maschio e femmina. Analogamente la scuola non può essere il luogo della negazione della differenza, anche quando nasce dalla necessità di rimuovere pregiudizi e stereotipi. Dire no a stereotipi di genere, significa dire contemporaneamente si alla dignità di genere, sia maschio che femmina.

Il genere in altri termini è una conquista continua a cui, sul piano educativo, concorrono sia la famiglia e la scuola che ogni altro contesto sociale in cui il bambino e la bambina vivono. La diversità di genere non presuppone diversità di dignità, ma integrazione tra due identità uguali e distinte. L’educazione affettiva, a cui la scuola deve dare il suo forte contributo sul piano performativo, ha nella identità di genere e nel superamento delle possibili ambiguità un forte punto di riferimento per creare dinamiche relazionali serene e costruttive. Casi particolari di disforia di genere ci potranno sempre essere, ma non sarà questa sorta di epidemia che in certi momenti sembra caratterizzare lo sviluppo identitario dei ragazzi e delle ragazze. Coglierne la complessità e l’oggettiva sofferenza che genera, induce a mettere in atto misure preventive che rafforzino lo sviluppo dell’identità di genere il più possibile in coerenza con lo sviluppo sessuale. Il genere, come è stato più volte fatto rilevare, si sviluppa soprattutto nell’ambito della dinamica relazionale precoce. Coinvolge genitori, fratelli, sorelle, e altre figure di caregiver, per cui è da lì che occorre ripartire dando ai ragazzi ciò di cui hanno bisogno in termini di sicurezza, autonomia e autostima.

Forse è arrivato il momento di pensare anche ad una pedagogia di genere, fuori da stereotipi e luoghi comuni, ma coerente con le caratteristiche del soggetto, perché possa davvero maturare delle scelte conformi con la sua infinita dignità.

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