“Ossi” e “Wessi” sono stati, e sono ancora in gran parte, definizioni popolari per i cittadini tedeschi rispettivamente della vecchia BRD (la Germania Occidentale) e della vecchia DDR (la Germania orientale).  Ossi sono i tedeschi dell’Est (da: Ost-Deutschland, o DDR) e Wessi quelli dell’Ovest (da: West-Deutschland). Sono definizioni tutto sommato relative, dato che, a dirla tutta, se si guarda alla storia tedesca prima della catastrofe del Terzo Reich, la Germania comunista non era propriamente “a est”, ma coincideva con quella che, un tempo, era la Germania centrale (almeno se la si guarda da ovest a est), essendo la Germania propriamente orientale quella che si estendeva dalla Pomerania alla Prussia Orientale, terre passate alla Polonia e all’URSS alla fine della seconda guerra mondiale. Si pensi anche solo al cuore pulsante della Germania storica, la Sassonia, la terra di Lutero finita nella ex DDR, insieme con Dresda, la Firenze dell’Elba. Ma si sa, i termini geopolitici non sono affatto assoluti.



Non si tratta però solo di modi di dire o di stereotipi. Ancora dieci anni fa, nel 2024, l’Institut für Deutsche Sprache rilevava che i due termini popolari sintetizzavano bene le difficoltà del processo di riunificazione tedesca, pur a tanti anni dalla caduta del Muro.

I due nomignoli sono stati anche portati in tribunale da chi se li era sentiti appioppare sul lavoro, ma sono stati ritenuti privi di risvolti discriminatori sul piano etnico. Anzi, già all’epoca della riunificazione a essi si è aggiunto il termine Wossi (sintesi di Wessi e Ossi), per indicare quei cittadini della Germania Occidentale che si erano trasferiti nei nuovi Länder, in particolare nel Brandeburgo, facendovi in qualche caso un discreta carriera. Tra questi alcuni personaggi che oggi ricoprono ruoli importanti nella politica federale, come il cancelliere Olaf Scholz, la ministra verde degli Esteri Annalena Baerbock e l’esponente e cofondatore di AfD Alexander Gauland.



Pur con queste minime precisazioni storiche e premesso, appunto, che non ci sono diversità “etniche”, le recenti elezioni e le vicende politiche interne di questi ultimi decenni, esauriti gli entusiasmi post-unitari, hanno fatto emergere un altro tipo di differenza, se non di divergenza, tra il mondo dei Wessi e quello degli Ossi. I movimenti politici alternativi, o presunti tali, al sistema politico tedesco, come AfD e BSW, il partito fondato da Sahra Wagenknecht, hanno fatto molta più presa a “Est” che a “Ovest” e le ragioni sono più profonde del possibile ritardo nello sviluppo economico nei nuovi Länder: non si tratta solo di mal di pancia, ma di teste che spesso pensano in maniera differente.



Per capirci qualcosa bisogna ritornare alla frattura tra le due Germanie, lungo tutto il secondo dopoguerra. A ovest gli Alleati (inglesi, francesi e, soprattutto, americani) imposero la cosiddetta Umerziehung, la rieducazione del popolo tedesco. I tedeschi, nella loro interezza, vennero considerati come una collettività psicologicamente deviata da generazioni di militarismo nazionalista e bisognosa di essere rieducata secondo i metodi della psicoanalisi sociale. E così, tra le tante chicche dell’epoca, per qualche anno a Ovest si arrivò persino al divieto delle Fiabe dei Grimm come lettura per l’infanzia.

In effetti, a parte le epurazioni di chi era compromesso con il regime nazionalsocialista (salvo tornasse utile agli Alleati), lo strumento principale furono le istituzioni educative, dunque la scuola e l’università, a cui veniva affidato il compito, sotto la guida dell’Amministrazione americana, di rimuovere lo spirito autoritario germanico per sostituirlo con un modello liberale “occidentale”. Il punto è che nella lotta all’autoritarismo teutonico e nell’opera di “rieducazione”, almeno da dopo i processi di Norimberga, si fece ricorso proprio a metodi autoritari, sia pure non apertamente coercitivi, ovvero non da hard power, ma da soft power (persuasivo-propagandistici). Si trattò principalmente di un’opera di rimozione, per usare un termine caro alla psicoanalisi, facilitata dalla tradizionale spinta tedesca all’ubbidienza: molti alti ufficiali alleati nell’immediato dopoguerra constatavano, con stupore, come i tedeschi, che pure avevano opposto una resistenza militare durissima all’avanzata degli Alleati, ora, invece, si mostravano del tutto remissivi e accondiscendenti.

L’obiettivo da costruire era l’uomo liberale, cioè quello che non si definisce per la sua storia e la sua capacità di valutarla, ma per un’idea astrattamente universalistica di libertà. Anni dopo, lo espresse bene, ma cogliendone un aspetto di per sé non negativo, il filosofo Jürgen Habermas: “L’unico patriottismo in grado di non renderci estranei all’Occidente è il patriottismo costituzionale”. E qui c’è senz’altro tutta la fatica di declinare un corretto concetto di patria in una Germania con alle spalle la tragedia del proprio nazionalismo, ma c’è altresì tutta la “rimozione” rispetto a ciò che precede le costituzioni: la storia, la cultura, lo spirito di uno o più popoli. La rimozione non è mai una buona strada per uscire da una crisi. Il problema, poi, è che le costituzioni sono punti di riferimento essenziali, ma sono fatte dalle maggioranze e possono cambiare, a volte con una certa facilità.

A modo suo, anche la zona di occupazione sovietica ha vissuto una sua specifica “rieducazione”, benché da quelle parti il termine non abbia avuto successo; solo che, a differenza che in Germania occidentale, nella ex DDR si rivendicava l’autentica eredità tedesca e il passato, più che rimosso, veniva riscritto. Visivamente, basterebbe dare un’occhiata alle uniformi dei due eserciti, con quelle della Volksarmee comunista che ricalcavano le tradizioni militari prussiane, mentre quelle della Bundeswehr occidentale, a parte il tricolore di Weimar, non erano (e sono) che una copia di quelle americane. In fondo, per la DDR i mali della Germania storica – il nazionalismo, l’autoritarismo, l’ideologia razzista – non erano altro che i mali del capitalismo, finalmente superati con la nascita di un sistema socialista. Del resto, la stessa tragedia dell’Olocausto, la più tremenda della storia tedesca, nella DDR veniva liquidata considerando l’antisemitismo come uno dei sintomi di crisi dell’imperialismo capitalista: la classe dominante avrebbe indirizzato sugli ebrei la rabbia della classe proletaria sfruttata ed oppressa. Analogamente, la questione dei “diritti umani” veniva deviata dalle cosiddette “libertà borghesi” alle garanzie sociali (lavoro, casa, istruzione, sanità) che il socialismo reale concedeva a tutti, contrariamente a quel che avveniva nelle società capitaliste.

Al patriottismo costituzionale dell’Homo liberalis si sostituiva l’internazionalismo proletario dell’Homo sovieticus, e alla laicità dello Stato l’ateismo di Stato marxista-leninista, come unico modello di riferimento di tutte le istituzioni educative (l’ex DDR è tutt’oggi una delle aree più secolarizzate al mondo). In sintesi: da una parte un modello liberale, che “vive di presupposti che non è lui stesso in grado di garantire” (Böckenförde), dall’altra un sistema ideologico rigido che considera il liberalismo null’altro che una forma di controllo capitalista sulla società.

Stiamo semplificando molto, ma proprio il pesante apparato ideologico della ex DDR ha indirettamente costituito in quell’area una sorta di involontario vaccino nei confronti del modello liberale e quindi anche del cosiddetto “politicamente corretto”, da intendere sia come linguaggio che come vera e propria religione civile.

Difficile pensare che tutto questo non abbia lasciato delle tracce profonde, sia pure a distanza di tre decenni, sul modo di pensare e prendere delle decisioni. L’Est è molto meno condizionato dell’Ovest dalle forme del politicamente corretto nel proprio modo di giudicare la politica internazionale (l’ossequio agli USA), l’immigrazione e la sicurezza interna, il lavoro e l’economia, la sanità e l’istruzione e, soprattutto, le proprie scelte elettorali, nelle quali appare decisamente meno incline a farsi condizionare dall’accusa di “estremismo populista”.

Di conseguenza, quando va al voto, recepisce solo in parte i diktat del soft power globalista che controlla la Germania e l’Occidente. Questo spiega il successo dei nuovi partiti politici antisistema, come Alternative für Deutschland e il Bündnis Sahra Wagenknecht, quest’ultimo nato proprio da una costola dei Linke, il partito postcomunista radicato principalmente nei Länder della ex DDR. Non è tutto, anzi, è molto poco, ma rimane qualcosa di cui tenere conto per capire che cosa sta succedendo – e succederà – da quelle parti.

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