Dopo la pandemia, in Italia e in quasi tutti i Paesi occidentali, molti giovani stanno manifestando sintomi gravi di ansia e depressione. Sono disturbi che non risparmiano neppure gli adulti, ma che sono presenti con frequenza ed intensità preoccupanti tra i giovani.
Da millenni e in ogni gruppo sociale, l’età giovanile è a rischio di disagio. La transizione dall’adolescenza all’età adulta è il periodo dei grandi cambiamenti nella vita di una persona, periodo che ha un inizio variabile secondo il genere, la cultura dominante e l’organizzazione sociale, e che ha un termine ancora più variabile nel tempo, poiché dipende non solo dalle caratteristiche individuali, ma anche dalle sue esperienze di vita, cioè dalle scelte dalla stessa operate e dalle reazioni alle scelte da parte dell’ambiente sociale e relazionale entro cui vive.
Ci sono situazioni che obbligano il giovane ad assumersi responsabilità da adulto prima di altre. Per esempio, il lavoro, certe difficoltà esistenziali e la necessità di far bastare il disponibile, spingono a decidere consapevolmente prima di quanto permettano situazioni meno costrittive e più tranquillizzanti.
Per capire come la pandemia abbia interagito con il disagio sociale già in atto, un gruppo di studiosi appartenenti a varie università italiane ha svolto un’indagine su un campione di italiani adulti nella seconda metà del 2022. A quei tempi non si sapeva quanto ancora sarebbe durata la pandemia e se avrebbe comportato altre novità, oltre alla costrizione in casa (lockdown), agli obblighi igienico-sanitari e al ricorso ripetuto ai vaccini, alla necessità di svolgere il proprio lavoro da casa o di accedere alla didattica a distanza. Invece, il virus, così spontaneamente come vi era entrato, è uscito di scena, e oggi siamo in grado di fare i conti dei danni.
La nostra indagine ha rilevato le categorie di danni e il loro impatto. Tra le altre cose, abbiamo cercato di misurare qual era il livello di depressione tra la popolazione italiana che ha collaborato all’indagine. Per misurare la depressione abbiamo utilizzato il test internazionale PHQ9, in italiano. Il test è uno degli strumenti utilizzati dagli psicologi per determinare, osservando certi sintomi, se una persona è clinicamente depressa.
I dati della Tabella 1 mostrano che i giovani in età dai 18 ai 24 anni hanno manifestato un livello di depressione di poco sotto il 50%, quelli dai 25 ai 34 anni hanno mostrato livelli inferiori ma la frequenza del 30% osservata presso questi secondi rimane comunque eccezionale. I dati rilevati indicano altresì che il rischio di depressione e disorientamento è una peculiarità giovanile, ma che neppure adulti e anziani ne sono esenti. Infatti, è stata rilevata una frequenza di depressione del 16,5% tra gli adulti in età 35-64 e del 13% tra la popolazione ultrasessantacinquenne.
Tabella 1. Percentuale di popolazione italiana che ha manifestato sintomi di disagio psicologico, per età.
Luglio-Novembre 2022 (n=1192)
Questi numeri indicano che il fenomeno dei disturbi psichici è, o almeno lo era circa un anno fa, generalizzato. Il fatto che abbia colpito in modo così evidente i giovani lascia perplessi per vari motivi.
Anzitutto perché in età giovanile le persone attuano le grandi scelte di vita: decidono se continuare a studiare o cercare lavoro, quale lavoro accettare e come avviarsi alla carriera professionale, scelgono la facoltà universitaria, decidono se uscire dalla famiglia di origine per vivere in proprio o costituire una famiglia. E le decisioni in stato di disagio psichico rischiano di generare disastri individuali e sociali.
D’altro canto, la differenza tra la percentuale individuata dal test (27,5) e quella dei malati psichiatrici in terapia per una qualsiasi malattia mentale (2,4) è così ampia – il rapporto tra le due proporzioni è di oltre 11 a 1 – da lasciare dubbi sulla potenza diagnostica del test. In questo nostro ragionamento assumiamo l’esito del test come indicatore di un disagio profondo nella popolazione, anche se il test, vale la pena ripeterlo, è usato come segno clinico dai professionisti della salute mentale.
Tabella 2. Percentuale di popolazione italiana depressa o in difficoltà nell’immaginare la propria vita futura, per caratteristiche della popolazione
Cerchiamo di individuare le possibili cause di questo disagio diffuso per capire se possiamo uscirne. Anzitutto, si conferma che è presente in quota piuttosto diversa tra i maschi (18,4%) e le femmine (34,3%) e questa non è una novità, essendo conclamato che i disturbi psichici, anche in tempi normali, molto più diffusi tra le seconde che tra i primi. Con i dati della Tabella 2 si può capire a quali fenomeni la depressione s’accompagna e quindi anche il ruolo della pandemia nel determinare la gravità del disturbo.
Si può vedere che la radice della depressione affonda nelle sabbie mobili dell’incertezza e della difficoltà nell’orientarsi nel presente e, a maggior ragione, in un futuro che viene percepito come oscuro e impenetrabile. Una parte di queste difficoltà sono endemiche tra i giovani, come si è già detto, ma le non trascurabili percentuali trovate anche presso la popolazione adulta implicano che la pandemia ha agito da moltiplicatore.
Non disponendo di dati analoghi antecedenti, possiamo solo fare congetture sull’entità delle difficoltà “normali” e quelle aggiunte dalla pandemia. Che la pandemia sia stata un fattore scatenante, è stato evidenziato da un’ampia letteratura internazionale. La Tabella 2 mostra, tuttavia, che il disagio sanitario provocato dal virus ha avuto sì un effetto sul disagio psichico, ma parziale: tra coloro che si sono ammalati la depressione è un po’ più frequente che tra i rimanenti che hanno avuto paura del virus ma non sono stati contagiati in modo palese (31,8% versus 27%).
Pertanto, l’essere stati attaccati dal virus non è che una concausa, e neppure così rilevante, del disagio psichico. Tra l’altro, e non è di poco conto dal punto di vista statistico, il numero di ammalati di Covid è considerevolmente inferiore al numero di coloro che, a pandemia conclusa, mostrano segni evidenti di disagio psichico. L’origine del disagio va dunque cercata altrove.
L’indagine ha rilevato, mediante una pluralità di quesiti, poi ridotti con metodi statistici ad un unico fattore, l’atteggiamento degli italiani nei confronti della vita. Il fattore risultante è stato poi ripartito, per comodità di lettura, in tre blocchi distinti secondo il valore di sintesi delle risposte ottenute:
– quello inferiore, che si può chiamare degli italiani “passivi”, che non reagiscono o reagiscono con sopportazione agli eventi;
– quello intermedio, che si può denominare dei “reattivi” poiché tipicamente reagiscono, anche in modo congruo, agli eventi che la vita loro pone dinanzi, e
– quello superiore dei cosiddetti “proattivi”, i quali possiedono intelligenza e volontà non solo per reagire agli eventi negativi, ma anche per predisporre gli strumenti e le condizioni che possono limitarne gli effetti.
La Tabella 2 indica sia l’esistenza di una stretta relazione tra l’atteggiamento propositivo nei confronti della vita e la capacità (auto-percepita) di essere in grado di progettare il proprio futuro, sia l’altrettanto stretta relazione tra atteggiamenti propositivi e l’auto-protezione contro la depressione. Tra i proattivi, la frequenza della depressione è solo del 12% (contro un 46,6% dei passivi) e la difficoltà di immaginare sé stessi nel futuro è solo del 5,4% (contro il 56,9% dei passivi). La proattività, che è capacità di dominio di sé stessi, è – sembra una tautologia ma è qualcosa di più – una solida barriera contro il disagio psichico.
Questo risultato non è inatteso, nel senso che, da sempre, la caduta, o il rifugio, nella depressione è speculare alle difficoltà del presente e, a maggior ragione, alla difficoltà di proiettarsi nel futuro. La pandemia, con la sensazione di perversità e di immanenza del virus, una durata del rischio che sembrava interminabile, l’improvvisazione e il costo delle soluzioni mediche e sociali, la necessità di studiare e lavorare in isolamento, si è presentata come uno shock sociale di dimensioni epocali e, soprattutto tra coloro che non avevano vissuto una guerra vera, lo è sembrata.
Non v’è chi non tema che – anche se il Coronavirus se n’è andato – altri virus possano scatenarsi. Anzi, molti sono convinti che il prossimo si manifesterà all’improvviso, esattamente come fu con il Coronavirus (in realtà, ce l’hanno raccontata in modo non del tutto corretto, ma questo è un altro discorso), dato che, a dispetto delle intenzioni manifestate nei decisori più consapevoli e a distanza di oltre un anno dalla fine della pandemia, non è stato messo in funzione un sistema di luoghi-sentinella per capire in poco tempo se e dove si svilupperà un’altra epidemia.
Non bastasse, appena l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) stava per dichiarare che la pandemia era finita, si è scatenata una guerra vera alle porte di casa tra due Paesi che, fino a pochi anni prima, erano fratelli. La rapida successione di shock sociali negli ultimi decenni (terrorismo, crisi economiche mondiali, pandemie, guerre, limitazioni improvvise di fonti energetiche) ha dunque accelerato l’incertezza nei confronti del futuro e la percezione di inconsistenza della società che, unitamente al disagio storicamente determinato, ha ampliato l’area dell’ansia e ne ha aggravato i sintomi.
È così diminuita la capacità di recupero che è stata la costante dei dopoguerra: questa volta, sono diminuite le nascite, sono aumentati i risparmi improduttivi e sono diminuiti gli investimenti produttivi, è calato l’entusiasmo sociale, la gente ha insomma deciso di rallentare, se non addirittura bloccare, quello sviluppo economico che, in certi periodi del passato, era proseguito in modo esponenziale. La gente è in apnea, aspetta chissà quale segno per tornare a respirare come prima. In questo contesto, i giovani sono nel caos.
Che fare, dunque?
La prima cosa da fare è rendersi conto collettivamente della vastità dello sconcerto sociale innescato dal virus e proseguito da anomale decisioni umane. Se così tante persone e, in modo particolare, così tanti giovani non sono in grado di decidere le proprie strategie esistenziali per mancanza di punti fermi, non si deve fare finta che tutto si aggiusterà da solo come è stato nel passato. Certo il tempo è un buon medico sociale, però non dobbiamo ignorare che il prossimo shock è dietro l’angolo. Conviene ricordare che nessuno degli shock sociali sopra menzionati si è preannunciato, ma è arrivato all’improvviso e poi è durato anni.
La depressione, in modo particolare quella giovanile, può essere curata agendo sulle cause. Esistono delle medicine che curano i sintomi dell’ansia e della depressione e abbassano il livello del rischio, ma non rimediano le cause, che sono eminentemente sociali e politiche. Quando si cura un sintomo, la causa ha già generato un altro caso. Bisogna sradicare le cause, e la causa prima è l’incertezza sul futuro.
Ovviamente, è una terapia facile più a dirsi che a farsi, però il decisore politico e sociale deve essere consapevole che la crescita della società è il solo esempio che i giovani intuiscono immediatamente come luogo di opportunità per sé stessi e che le strozzature allo sviluppo introdotte ai tempi del Covid sono bombe ad orologeria nella testa dei giovani.
Inoltre, dato che il futuro è ignoto a tutti, è necessario abituare i giovani a pensarsi al futuro, fare in loro maturare la capacità di stabilire le conseguenze delle possibili scelte, farli riflettere sulla necessità di essere responsabili e sulla possibilità di sperimentare proprie strade nel futuro.
Si possono, per esempio, introdurre, nelle scuole e nei gruppi sociali, adattamenti di determinati strumenti che sono utilizzati da tempo per ragionare sul futuro. Per esempio, si possono diffondere dei giochi creati ad arte (ci sono esempi sperimentati e da perfezionare) che stimolano la riflessione sul futuro, sia quello proprio del giocatore, sia, per confronto, quello degli altri con cui si possono misurare. Abituare una persona a collocarsi con la mente in un futuro probabile, e a confrontare il proprio futuro con quello degli altri, dovrebbe stimolare la riflessione sui futuri individuali plausibili.
Infine, siccome il web è il primo luogo che i giovani scandagliano in cerca di informazioni, va coordinata un’azione informativa sui social network volta a far capire che un’eventuale disagio individuale è ampiamente condiviso e non riguarda pochi individui sfortunati; inoltre, che dal disagio si può uscire e che è meglio farlo senza medicine che creano assuefazione e che nei casi più drammatici sono disponibili professionisti in grado di aiutare chi non ce la fa da solo, infine che un giovane che vuole crearsi un futuro deve farsi forza perché ci sono molti altri come lui che la forza la trovano in sé stessi.
Forse bisogna anche rifare un’indagine sulla popolazione, mirando più alla varietà delle situazioni e all’individuazione di soluzioni che alla misura del livello generalizzato del rischio di disagio. Una volta che ci si rende conto di un problema, si è già avviato il percorso di risanamento.
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