Di norma, la scienza considera il passato ignoranza, il presente ricerca e il futuro progresso. Questa visione può essere pericolosa perché la speranza passiva, senza azione, potrebbe farci credere che il futuro sia predeterminato e che un’entità superiore si prenderà cura di ogni cosa. Così, pur dando per scontata la consapevolezza dei cambiamenti climatici, del surriscaldamento globale, dell’inquinamento e di tantissime altre minacce globali, la sensazione dell’uomo della strada è che tutti, giovani compresi, stiano accettando un futuro problematico come ineludibile. Cioè, si spera che il mondo cambi in meglio, a patto che lo faccia qualcun altro.
Le crisi economiche, le stragi terroristiche, le guerre nel mondo e la pandemia hanno sovralimentato in alcuni giovani un atteggiamento pessimista, portandoli sempre di più a vivere “alla giornata”. Secondo l’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, la percezione degli italiani riguardo alla posizione sociale ed economica futura dei giovani sta peggiorando notevolmente (Figura 1): solo il 7% ritiene che il futuro sarà migliore per i giovani a fronte del 75% che lo vede peggiore. Nel 2006, le due percentuali erano rispettivamente del 26% e 45%. Demos&Pi (2018) mostra altresì che il peggioramento della percezione interessa in maggior misura i giovani fino a 34 anni.
Urge una rivoluzione scientifica, prima che culturale, sul significato di futuro. La verità è che sul passato non abbiamo nessun potere mentre sul futuro possiamo fare tutto. Citiamo, a questo proposito, Bertrand de Jouvenel, futurologo francese vissuto nel secolo scorso: “in quanto soggetto agente, l’uomo ha di fronte l’avvenire come campo di libertà e di potenza, e, in quanto soggetto conoscente, come campo di incertezza. […] È anche il solo campo in cui siamo in grado di esercitare la nostra potenza, perché non possiamo agire che sull’avvenire”.
Bisogna stimolare un atteggiamento proattivo che rifiuti radicalmente l’unicità del futuro, aprendo la strada a una pluralità dei futuri, che non si possono prevedere ma si possono esplorare e “usare”. Usare il futuro significa raccogliere informazioni, idee e visioni del futuro per prendere decisioni nel presente; quindi, una conoscenza che consente di riappropriarci dell’accezione positiva del termine responsabilità, intesa come potere di agire nel presente per modificare, in meglio, il corso degli eventi. Anche secondo Bruno de Finetti (1968), statistico italiano di spicco del secolo scorso, la vera questione sul futuro non riguarda la previsione, ma bisogna “pensare che le cose andranno così come noi riusciremo a farle andare e che, pertanto, il problema è un problema di decisione, non di previsione”.
Ma la scuola italiana non prepara i giovani al futuro, anche perché non esiste una materia di insegnamento del futuro, come invece accade in molti Paesi del mondo. E, parlando di scuola, vale un’analogia con lo sport, nel quale le abilità richieste si classificano in due grandi categorie, “closed” e “open”. La differenza risiede nella stabilità, e quindi prevedibilità, del contesto e delle situazioni in cui lo sport si svolge. Negli sport closed skills (es. ginnastica artistica, nuoto, bowling) l’ambiente di gioco è fisso, prevedibile e questo permette agli atleti di allenarsi quasi esclusivamente sul gesto tecnico. L’atleta si allena ripetendo tante volte il gesto tecnico alla ricerca della perfezione nei movimenti.
Invece, negli sport open skills – detti anche sport situazionali (es. calcio, tennis, pallacanestro) – l’ambiente di riferimento è variabile e imprevedibile, sia a causa del terreno di gioco, sia degli avversari, sia le condizioni ambientali. Questo impone agli atleti di allenarsi sia sul gesto tecnico, sia, soprattutto alla imprevedibilità delle innumerevoli situazioni che si possono presentare in gara. Sapersi adattare ad un contesto nuovo è fondamentale, per cui l’allenamento consiste nel simulare quante più diverse situazioni possibili, costringendo gli atleti a risolvere circostanze nuove e imprevedibili, a prepararsi a quante più sorprese future.
Allora perché continuiamo ad educare le nuove generazioni sempre allo stesso modo? La scuola oggi sembra impostata per una vita professionale closed skill, vale a dire per una società più o meno stabile e largamente prevedibile. Secondo molti studiosi, fra cui la futurista Jennifer M. Gidley, i sistemi educativi odierni sono ancora basati su una concezione di istruzione legata al modello industriale ottocentesco, quando la formazione serviva per sfornare schiere di nuovi operai specializzati. Il problema è che la società oggi, come non mai, è soggetta a mutamenti sempre più numerosi e veloci. Il rischio di un inserimento inadeguato è grande.
Non si può essere pronti alle incertezze se non ci si è prima allenati a gestirle. Chi vuole prendere un brevetto di volo negli Stati Uniti d’America deve dimostrare di saper manovrare un aeromobile in una situazione di stallo, condizione improvvisa e inaspettata in cui un aereo perde la portanza necessaria per sostenere il volo. I programmi di addestramento sono volutamente progettati per includere minacce inaspettate durante il volo reale e le evidenze empiriche dimostrano che queste sorprese sono cruciali. Per un pilota, studiare la teoria dello stallo o fare le manovre solo al simulatore non sviluppa a sufficienza le abilità necessarie. Anche l’attività professionale è fatta di tante situazioni di stallo ai quali gli studenti non hanno mai dovuto fare fronte. Bisogna che gli studenti imparino a fronteggiare le sfide vere della vita e del lavoro, trascorrendo più tempo nel loro “simulatore”.
Gli imprenditori italiani, da tempo, lamentano il fatto che non trovano candidati con le competenze necessarie per le loro attività. Nell’ultimo trimestre del 2022, la quota di posti rimasti vacanti era del 2,3% dei posti di lavoro complessivi dei settori dell’industria e dei servizi (Figura 2). E il fenomeno è nettamente in crescita (al netto del periodo Covid).
Molti (e non solo gli imprenditori) ritengono che fra le diverse possibili cause del disallineamento delle competenze ci sia anche il sistema di formazione italiano, che non prepara i giovani ad affrontare adeguatamente il mondo del lavoro in quanto troppo basato sul sapere (come a dire la tecnica perfetta del palleggio) piuttosto che il saper fare (saper giocare una partita di calcio).
Ma anche le famiglie, quindi i genitori, hanno le loro responsabilità. Si pensi alla frenetica ricerca di molti genitori del corso di laurea o del master più suggestivo per il futuro dei propri figli. Tutto questo è importante, perché anticipa una parte del ragionamento sul futuro. Tuttavia, è la scuola che dovrebbe introdurre quella quota aggiuntiva di flessibilità nel pensiero del giovane. Va introdotta, sin nella scuola dell’obbligo, l’alfabetizzazione al futuro. Si tratta di una forma di alfabetizzazione su cui si stanno concentrando governi nazionali (es. Gran Bretagna e Grecia), organizzazioni internazionali (es. Unesco) e ricerca scientifica (es. università di Turku, Finlandia). Riguarda la capacità di esplorare futuri alternativi e comprendere le implicazioni delle decisioni attuali. In tale direzione, fra i vari strumenti già sperimentati in diversi Paesi del mondo, ci sono i laboratori di futuro, appositamente progettati per sviluppare nei giovani la capacità di comprendere, navigare e partecipare in modo consapevole al futuro. Si potrebbero facilmente inserire nella scuola dell’obbligo, come attività didattiche integrative, e nelle università, come laboratori professionalizzanti.
Un altro strumento utile, già sperimentato in altre discipline, riguarda la gamificazione o ludificazione, ovvero l’uso di elementi e dinamiche tipiche dei giochi (come punteggi, premi, sfide, classifiche, ecc.) all’interno di contesti educativi per motivare gli studenti, migliorarne l’interazione con il gruppo de pari e favorire l’apprendimento. Esistono già molti “giochi di futuro”, sperimentati soprattutto all’estero, per cui si tratterebbe solo di riadattarli alla realtà italiana e diffonderli il più possibile, non solo negli ambienti scolastici e universitari, ma anche tra il grande pubblico.
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