Una delle tante “fake news” in circolazione sull’odierna Unione e sull’euro in particolare vuole l’una e l’altra quale il frutto di un’imposizione tecnocratica calata dai palazzi di Bruxelles sul popolo italiano. La rimozione è in effetti la più celebre delle difese dell’inconscio dai ricordi spiacevoli o ritenuti tali. L’11 maggio 1989 quel popolo fu chiamato a rispondere sul seguente quesito con un referendum di indirizzo: “Ritenete voi che si debba procedere alla trasformazione delle Comunità europee in una effettiva Unione, dotata di un Governo responsabile di fronte al Parlamento, affidando allo stesso Parlamento europeo il mandato di redigere un progetto di Costituzione europea da sottoporre direttamente alla ratifica degli organi competenti degli Stati membri della Comunità?”.



L’anno successivo il Consiglio europeo straordinario a Dublino (28 aprile 1990) aveva rilanciato formalmente l’impegno alla nascita di un’Unione politica europea. Mentre già nel 1986 i capi di stato europei avevano lanciato il progetto della moneta unica, impegnandosi nel 1989 a realizzare un processo di transizione in tre fasi, definite formalmente nel Trattato di Maastricht. Molti paesi tennero in relazione a quel fondamentale trattato, che negli auspici doveva tenere a battesimo i gemelli dell’Europa politica e di quella economica, una serie di consultazioni popolari. Chi prima (come l’Italia), chi dopo (come la Francia). In Italia l’esito fu il seguente: parteciparono al voto l’80,7% degli aventi diritto (un numero stratosferico per un referendum), votarono Sì l’88% degli italiani e No il 12%. Dunque no, non fu un golpe ordito nottetempo dai tedeschi, a cui peraltro l’euro fu veramente imposto da Mitterrand quale condizione alla riunificazione.



La domanda però da porsi a questo punto è un’altra. Cosa è accaduto nel frattempo a quel plebiscitario consenso? Non solo in Italia, anche se nel nostro provinciale italo-centrismo riteniamo esservi in ogni Paese europeo una disaffezione all’Europa e all’euro che gli istituti statistici non registrano. Secondo i dati dell’ultimo sondaggio Eurobarometro, il 68% degli europei ritiene che il proprio Paese ha tratto beneficio dall’appartenenza all’Ue contro il 43% degli italiani. L’euro gode di sondaggi addirittura più favorevoli, perfino (distonicamente) in Italia. E tuttavia non è negabile che il vasto consenso di cui l’Unione godeva solo venti anni fa negli stati membri è stato eroso ed è oggi insidiato da numerosi e forti movimenti euro-scettici che attraversano tutto il vecchio continente.



Una possibile risposta può trovarsi all’incrocio di due fenomeni. Quello di una serie di ondate di crisi che hanno scosso il popolo europeo in questi anni e il tradimento di quella domanda di Europa, plasticamente incarnata dal quel referendum italiano. I processi di globalizzazione hanno precarizzato e spaventato larghe fasce di popolazione, specie quelle meno acculturate e attrezzate alla competizione. I flussi migratori apparsi quale fenomeno emergenziale e non governato hanno insidiato anch’essi antiche certezze e soffiato su paure finanche ancestrali. Le minacce terroristiche arrivate nel cuore delle capitali europee hanno disorientato un’opinione pubblica che si è voltata verso l’Europa a chiedere una sola cosa: protezione. Non trovandola. Si è quindi rivolta a chi gliela prometteva, poco importa se fittizia: lo Stato nazionale. Il secondo dato, da leggere in combinato disposto con il primo, è lo stato evolutivo del progetto europeo all’alba di queste crisi. Un’anatra zoppa cresciuta nelle competenze sino ai confini dello Stato federale, ma inefficace nella sua azione di risposta ai bisogni fondamentali dei suoi cittadini o percepiti come tali.

Tuttavia, e qui sta l’inganno sovranista, l’Europa non poteva e non può rispondere a quelle basilari domande di protezione perché gli Stati nazionali non vogliono che lo faccia. Non le hanno dato e non intendono darle i mezzi occorrenti. L’Unione non è dotata di Kompetenz-Kompetenz, non si auto-attribuisce poteri, ha quelle competenze e strumenti che gli Stati le conferiscono. Con una certa avarizia, peraltro, così da preservare le loro prerogative e, nella prospettiva funzionalistica che ha costruito l’Ue di oggi, solo se costretti per far fronte alle emergenze. L’Europa sarà il risultato delle sue crisi diceva Jean Monnet, padre di quel metodo che oggi ha prodotto un’Europa strisciante e preterintenzionale alla volontà degli Stati. Essi hanno infatti costruito una moneta unica quale evoluzione funzionalista del mercato unico, ma non un bilancio indipendente, attraverso cui costruire un ammortizzatore del ciclo e una rete di protezione per chi rimaneva indietro, perché ciò costava sacrifici di sovranità che non intendono fare. Un bilancio federale ha profonde implicazioni costituzionali realizzando quell’unione dei “trasferimenti” aborrita dai tedeschi, ma alle cui conseguenze nessuno stato è pronto. Oggi il budget dell’Ue è sostanzialmente identico a quello di una qualsiasi organizzazione internazionale come l’Onu. Le sue risorse, pari all’1% del Pil degli stati membri, sono determinate all’unanimità dagli stessi Stati. Non esiste alcuna possibilità di prevedere, a trattati costanti, strumenti di protezione quali sussidi di disoccupazione, a livello europeo, di cui pure si discetta da tempo.

Quegli stessi Stati che hanno abbattuto tra di essi le frontiere per aprire alla libera circolazione delle persone (oltre che del resto), non hanno devoluto e non intendono devolvere all’Unione la protezione delle sue frontiere esterne. Non c’è una marina europea indolente che fa passare i barconi, non c’è, a scandalo del sovranista di turno, neanche una vera e propria competenza esclusiva Ue in tema di immigrazione. “Dublino”, che nasceva quale trattato fuori dall’acquis communautaire, ha a oggetto la sola materia del diritto di asilo (3-5% del fenomeno migratorio). L’Europa non decide chi far entrare nei suoi confini sebbene l’abbattimento delle frontiere interne farebbe sì che chi entra è questione comune, lo decidono in ultima istanza gli Stati. Non esiste un corrispondente europeo del Department of Homeland Security statunitense con compiti federali di controllo dell’immigrazione e di sicurezza nazionale. Allo stesso modo, notoriamente, non esiste, quale mezzo certamente più efficace nel contrasto al terrorismo internazionale, una intelligence europea, una polizia federale europea o un esercito europeo a presidio della sicurezza dei suoi cittadini.

Insomma, si chiedeva e si chiede all’Europa quello che non poteva e può fare. Si è propagato l’inganno di un’istituzione imbelle per scelta, che “lascia sola l’Italia” sul fronte migratorio e abbandona i suoi cittadini laddove erano e sono gli Stati, unici detentori di sovranità (Herren der Verträge scrive la Corte Costituzionale tedesca), a dettare cosa debba essere, fare e non fare l’Unione. L’impressione di chi scrive è che a entrare in crisi sia stata proprio questo assetto europeo e l’idea di Europa che incarnava, aperta al mondo, “cosmopolita”, intergovernativo. Dotata di soft power e non di veri poteri. Incapace di tracciare e difendere i suoi confini geografici e culturali. Se così fosse, andrebbe allora spiegato che la “nuova” Europa, sogno dei sovranisti, è quella che c’è, more of the same. Se possibile più debole e inerme a quelle sfide. Una nuova Europa non può essere delle nazioni, perché semplicemente dove ci sono le nazioni non c’è l’Europa.