Molti giornali di ieri aprivano la prima pagina con le dichiarazioni di Giorgia Meloni a Malta contro il fantasma di un governo tecnico con tanto di lista dei ministri già pronta. In realtà, la notizia non è che esistano trame più o meno occulte per fare cadere questa maggioranza – questo è noto –, ma che la premier con le sue parole sta cedendo alla “sindrome da accerchiamento”. La presidente del Consiglio ne ha parlato per smascherare la minaccia, di fatto ci ha messo sopra un timbro di “ufficialità”. È segno che teme le pressioni che vanno intensificandosi con la crescita dello spread e dopo il varo della Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza (Nadef).
La Meloni parla di “soliti noti” che sono al lavoro per una nuova maggioranza guidata dal Monti o dal Draghi di turno. Il fronte è molto composito. In Italia comprende il Pd di Elly Schlein e i giornali allineati, che ogni giorno martellano sull’“ossessione da complotto”, sull’allarme per gli interessi dei titoli di Stato, sul rischio di una procedura europea sui nostri conti pubblici, sull’affidabilità finanziaria del Paese che sarebbe in costante calo. In Europa, da cui arrivano i maggiori elementi di tensione, sono coinvolti soprattutto i socialisti con la regìa, molto discreta, del commissario Paolo Gentiloni. La campagna elettorale per le elezioni europee della prossima primavera è già in atto: da questo punto di vista è emblematica la scelta della Germania di finanziare le Ong che raccolgono i migranti nel Mediterraneo per consegnarli all’Italia. È la mossa di un governo a trazione socialista per tenersi buono l’elettorato più attento ai diritti dei migranti senza tuttavia avere conseguenze sul proprio territorio.
Le preoccupazioni sono forti, ma fondate soltanto in parte. Il paragone con il governo Berlusconi del 2011 è del tutto fuorviante: oggi lo spread, a parte una punta di brevissima durata, non supera i 200 punti mentre 12 anni fa viaggiava sopra i 500. L’anno scorso, dopo il voto anticipato, si è toccata quota 250. Eppure, “in quei giorni certi titoli non li ho visti”, come ha ricordato la Meloni. Infatti si andava verso una legge di bilancio predisposta da Draghi: era la sua ombra a proteggere – solo apparentemente – i conti italiani.
La pressione che viene dai media e dall’Ue è tesa a convincere che il problema sia la maggioranza meloniana, incapace di una politica economica e di bilancio adeguata al momento, mentre le responsabilità sono quantomeno condivise. La Bce ha un peso enorme in questa situazione: i tassi d’interesse vengono tenuti elevati per tutti i Paesi e sono in salita in tutto il mondo, ma pare che il problema sia solo l’Italia. All’origine c’è un’inflazione prodotta dai costi delle materie prime, in particolare dell’energia e delle materie prime (importate) necessarie per la transizione energetica, ma la Bce ha una sola strategia per fronteggiare l’emergenza prezzi: tenere artificialmente alti i tassi senza un’azione anticiclica di bilancio adeguata.
La Meloni e il suo governo devono poi scontare gli effetti delle scelte operate da Draghi. “Se non ci fosse stato un tizio che voleva andare al Quirinale e per questo ha sbloccato e rilanciato il bonus edilizio, l’Italia starebbe molto meglio”, ha detto ieri mattina l’ex ministro Giulio Tremonti, oggi deputato di Fratelli d’Italia. Il nervosismo della Meloni sfociato nell’ammissione dell’“eurocomplotto” è dovuto al fatto che la premier si trova davanti a un bivio. O risponde all’elettorato che le ha dato i voti per andare a Palazzo Chigi, oppure presta fede alle sirene dei palazzi che le consigliano di scaricare la forza politica più antieuropea – la Lega – e farsi garante di una maggioranza “Ursula 2” con Calenda, Renzi e la frangia Pd più moderata. Che questa “draghizzazione” possa concretizzarsi è tutto da vedere. Ma è la prospettiva verso la quale Bruxelles e alcuni “consiglieri” da sempre nei palazzi spingono la premier per allentare le tensioni sulla manovra.
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