L’assenza di alternative dovrebbe far pensare che quello di Draghi è l’unico governo possibile e che gli screzi dentro e fuori il governo sono soltanto esercizi tattici per mantenere o aumentare il consenso. Dentro il governo, Letta usa i temi identitari per stressare Salvini e fare avances nei riguardi di ministri come Gelmini e Brunetta; mentre fuori dall’esecutivo FdI ha scelto ogni possibile occasione offerta dalla composita maggioranza di unità nazionale – dalle riaperture alla mozione di sfiducia a Speranza – per logorare gli alleati di centrodestra.



La domanda che molti di fanno è se e fino a quando Lega e Forza Italia potranno resistere senza scaricare sull’esecutivo le tensioni create dalle iniziative di Letta e Meloni. Lo abbiamo chiesto ad Antonio Pilati, opinionista e saggista, già componente dell’Antitrust, dell’Autorità per le comunicazione e del Cda Rai.



Fin dove intende spingersi Letta nel logoramento di Salvini?

Facciamo un esercizio scomodo e mettiamoci nei panni di Letta. Eredita un partito che viene da una lunga serie di fallimenti. Il primo è quello del governo Conte, che il Pd ha sostenuto con grande convinzione. Ricordiamo che Conte è caduto non per un complotto internazionale, ma per la preoccupazione che aveva creato nei partner europei.

Un secondo fallimento?

La linea politica dell’accordo con M5s. Un patto nel quale il Pd ha investito e sta ancora investendo il suo capitale politico. Ma il M5s è in sfacelo e la sua matrice antipolitica, radicata soprattutto alla base, rende difficili gli accordi, come mostra la vicende delle candidature nei grandi comuni. Ma c’è un altro fallimento.



Quale secondo lei?

Quello economico. Salvo la parentesi giallo-verde, il Pd ha governato dal 2011 a oggi quasi sempre in prima persona e questi 10 anni sono stati un disastro: il ritmo di crescita dell’economia italiana è stato molto basso, inferiore a quello dei partner europei.

Se adesso torniamo a Letta e al Pd?

Con questi macigni sulle spalle, Letta non ha tanto da scialare. E per il fallimento dei governi sostenuti dal suo partito, si trova a dover convivere con l’uomo che il Pd ha da tempo demonizzato.

Cioè Salvini.

Essendo debole, Letta si è affidato ad una linea facile, quella di tirare calci negli stinchi a Salvini per indurlo ad andarsene. Ma Salvini ha messo i parastinchi e va avanti per la sua strada.

Fino a quando? Questo è il punto.

Non lo sappiamo. Però è evidente che quella di Salvini non è una scelta occasionale, temporanea. Il sostegno a Draghi è un investimento politico, una scelta di prospettiva.

Sembrano metterci del loro anche grand commis di Stato come Garofoli, al quale Draghi potrebbe avere affidato il dossier Rai. È verosimile un tandem Andreatta-de Bortoli?

Direi due cose. La prima è che Tinny Andreatta è una brava professionista, un’abile manager della fiction televisiva. La fiction comunica una visione del mondo e forma la mente degli spettatori in profondità. Ha un’efficacia politica cento volte maggiore di quattro battute dette nel pastone di un tg.

E la seconda cosa?

De Bortoli è un grande giornalista, tuttavia entrambi fanno parte della medesima area politico-culturale: la linea Trento-Bologna e quella Brescia-Milano sono convergenti. Quasi sempre la Rai nei suoi vertici ha avuto una governance equilibrata.

Resta il fatto che a gestire questo e altri dossier è un apparato di governo che non improvvisa per nulla le sue mosse.

È il ceto dirigente che guida oggi l’amministrazione pubblica e che ha una certa propensione per il Pd. Una politica debole gli lascia briglie sciolte, ma se c’è un leader politico forte – come Draghi di fatto è – le briglie sono più tirate.

Torniamo agli equilibri di governo. Se la vera spina nel fianco del centrodestra non viene da Letta, viene da FdI?

La Meloni vede sondaggi brillanti; una parte dei nuovi ingressi, peraltro virtuali, sembra provenire dal bacino della Lega e questo forse la induce a mettere sotto pressione Salvini.

Come giudica questa iniziativa?

Vedo una buona dose di strumentalità. Se c’è una coalizione che va avanti da anni e dà risultati alterni ma nel complesso buoni, i suoi esponenti dovrebbero avere come primo obiettivo il benessere della coalizione. Attaccare un alleato danneggia la coalizione e favorisce gli avversari.

Mi sembra che lei consideri la polemica politica come una cosa di basso profilo, forse non adeguata al grave momento attuale.

Noto un’evidente divaricazione di piani. Oltre a quello delle schermaglie tra partiti, c’è un piano ampio: l’economia italiana, il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo e nel mondo, i rapporti con l’America e l’Unione Europea.

Tutte questioni strategiche di primaria importanza. Sono sul tavolo di qualcuno?

Se ne occupa Draghi, che a questo livello trova la ragione del suo governo. Il presidente del Consiglio è chiamato a dare un senso strategico all’iniziativa politica dell’Italia. Il momento pare propizio: l’Ue si è visibilmente indebolita, non solo per i vaccini; Macron è contestato, Sanchez è in difficoltà, preso com’è tra Vox e separatismi, in Germania l’era Merkel si conclude molto sottotono.

Sono gli Stati Uniti i primi interessati a pompare, anche attraverso la stampa mainstream – New York Times, Financial Times – il “momento Draghi”?

In questa fase di debolezza dell’Ue i motivi per un’azione comune tra Italia e Usa non possono che diventare più forti.

Cosa si prepara per il sistema politico se i partiti non attingono al livello più alto?

Per ora le decisioni fondamentali avvengono nel rapporto tra Draghi e i partner internazionali.

C’è un altro aspetto da considerare. Il primo alleato del Pd, M5s, sta esplodendo. Il leader in pectore, Conte, è comparso nei verbali degli interrogatori di Piero Amara. Un’altra nemesi per il movimento di Grillo?

Mi limiterei a una considerazione generale. M5s ha avuto la sua fase ascendente nel momento in cui la magistratura godeva di grande prestigio. Una fetta della società italiana allora ha pensato che una maggiore severità nell’amministrazione della giustizia fosse una medicina amara ma necessaria per il paese. Quando gli scandali hanno fatto vedere che anche la magistratura è divisa in conventicole che si alimentano di patti mediocri, quell’ideologia ha perduto terreno.

E chi sosteneva i pm a spada tratta?

Si è trovato spiazzato. Tutto questo toglie una ragion d’essere ai grillini e rende l’impresa di mettersi alla loro testa, e di dar loro un orizzonte politico, un’impresa disperata. In più ci sono molte filiere grilline in contrasto tra loro. Quando questo accade, cominciano a circolare i dossier.

Gli anni d’oro del M5s si basavano su una convergenza taciuta, ma reale, tra 5 Stelle, giustizialismo, stampa e alcune procure. Se il partito si disgrega, i pm diventano più forti o più deboli?

Non so rispondere. La magistratura è un organo molto stratificato e complicato, vi si intrecciano idealità, senso dello Stato, carriere, interessi, calcoli di basso profilo. È difficile capire dall’esterno queste dinamiche.

A proposito di amministrazione della giustizia. L’arresto degli ex terroristi rifugiati in Francia appare come una svolta storica. Nessuno ci era riuscito.

È un’operazione di livello strategico che hanno fatto Draghi e Macron.

Perché strategico?

I rapporti tra Francia e Italia finora sono stati molto a senso unico: i francesi prendevano, gli italiani davano. Quanto è accaduto va attribuito all’indebolimento di Macron e al forte rapporto di Draghi con gli Stati Uniti.

(Federico Ferraù)

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