In politica il fattore tempo è decisivo. Scelte giuste, se fatte nel momento sbagliato, possono costare care. Con la regola del fattore tempo Giorgia Meloni sta andando a scontrarsi sempre più spesso. Il caso più clamoroso è quello della ratifica del Mes, ma non è l’unico.

Si prenda la nomina del commissario per la ricostruzione post alluvione in Emilia-Romagna. Palazzo Chigi ha sin qui rinviato la scelta, resistendo alle pressioni per indicare il nome del presidente della Regione, Bonaccini. Evidente il timore di andare a rafforzare quel che viene ritenuto un temibile avversario politico, nonostante la sconfitta alle primarie del Pd. Forse il calcolo è stato che, facendo spegnere i riflettori sull’emergenza, sarebbe stato più facile scegliere un nome differente, un tecnico al posto di un politico. Ora però c’è persino la Lega, con il capogruppo alla Camera Molinari, a dire che si è perso troppo tempo. E il massimo del danno sarebbe di dover avallare alla fine proprio la nomina di Bonaccini.



Anche sul caso Santanchè il fattore tempo potrebbe essere decisivo. Attendere troppo nel fare chiarezza finirebbe per indebolire il governo. Ecco perché alla fine la ministra del Turismo dovrà presentarsi alle Camere e spiegare le pesanti ombre che le inchieste giornalistiche hanno proiettato sulle sue attività imprenditoriali. L’auspicio nella maggioranza è che sappia essere convincente. Altrimenti potrebbe non bastarle quella logica quasi clanica che caratterizza il nucleo storico di Fratelli d’Italia e che porta a una difesa strenua, oltre l’immaginabile, di qualunque membro dell’inner cicle finisca nell’occhio del ciclone (caso Del Mastro-Donzellli, ad esempio), a prescindere dalla materia del contendere.



Ma la vicenda Mes è il caso più evidente in cui il fattore tempo può diventare un danno. Sabato Giorgia Meloni ha spiegato di ritenere un errore portarlo in aula in questo momento, precisando che dovrebbero ritenerlo un errore anche coloro che sono favorevoli alla ratifica dal trattato. Nei corridoi di Montecitorio circola la voce che il centrodestra farà di tutto per rinviare la scadenza del 30 giugno, mentre il Pd continua il suo pressing. Il testo base del ddl di ratifica è passato in commissione Esteri solo con i voti democratici e del terzo polo, assente la maggioranza, che ora potrebbe chiedere una raffica di audizioni e presentare una valanga di emendamenti (auto)ostruzionistici.



Il terreno, però, è scivoloso. Ogni volta che si presenta a Bruxelles, il ministro Giorgetti è pressato da ogni parte perché l’Italia ratifichi il trattato. E dai suoi uffici una settimana fa è partita una lettera (firmata dal capo di gabinetto Stefano Varone) che, su richiesta del presidente della commissione, Giulio Tremonti, ha dato un parere sugli “effetti diretti e indiretti sulle grandezze di finanza pubblica” derivanti dalla ratifica dell’accordo, e ha evidenziato l’assenza di rischi per il Paese in caso di ratifica, anzi il probabile rafforzamento dei nostri titoli di Stato; ma non potendo dire di più – sempre relativamente agli effetti sulla finanza pubblica – sulla “eventuale attivazione del supporto finanziario” del Mes, proprio per la presenza di troppe variabili imponderabili.

Nel “giallo” della lettera alcuni osservatori più audaci hanno visto un tentativo di forzare la mano, probabilmente sull’asse Palazzo Chigi-ministero dell’Economia, non andato a buon fine. Un blitz subito arenatosi per la strenua opposizione di Salvini. Da qui le dichiarazioni dilatorie, con orizzonte il prossimo autunno.

Ecco che il fattore tempo rischia di trasformarsi in un fattore di logoramento, dentro la maggioranza – anche se il leader leghista continua ad assicurare che questo governo durerà almeno dieci anni – e dentro la stessa Lega, nonostante le continue rassicurazioni che nulla è più solido dell’asse Giorgetti-Salvini.

Molti segnali fanno pensare che la decisione di ratificare il Mes sia stata già presa, da parte della Meloni, che la ritiene inevitabile per sedere da protagonista al tavolo europeo. E nulla impedisce di credere che la nota del Mef fosse un azzardo a tre, Giorgetti-Tremonti-Meloni, sfuggito di mano. Probabilmente la presidente del Consiglio vuole offrire il sì dell’Italia sul piatto delle trattative europee in merito alla revisione del Patto di stabilità (e forse anche dell’implementazione della recente intesa sui flussi migratori).

Si tratta di un calcolo la cui efficacia – al netto di ogni considerazione sulla pericolosità del Mes, che la Meloni, quando era all’opposizione, aveva sempre detto di non volere – rimane tutta da verificare, perché a Bruxelles la ratifica se l’attendono senza contropartite. Arbitra del fattore tempo rimane la presidente del Consiglio. Sull’azzeccare la scelta si gioca molto della sua credibilità.

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