Quando si dice l’eterogenesi dei fini. Tanto avevano fatto Pd e M5s per tenere il centrodestra lontano dal governo, che hanno finito per riportarcelo. E per danneggiare sé stessi. È infatti la vecchia maggioranza del Conte 2 quella che in questa settimane mostra le crepe più profonde a causa del terremoto Draghi. Mister Bce è arrivato a Palazzo Chigi sull’onda dell’antisovranismo e dell’europeismo mentre ora si sta mostrando quasi più euroscettico di Matteo Salvini: non solo ha bloccato l’export di vaccini dall’Italia all’Australia, ma non ha lesinato critiche a come Bruxelles sta gestendo la campagna per uscire dalla pandemia.
Tuttavia l’effetto più clamoroso del nuovo governo è lo sbandamento della vecchia maggioranza, che si era illusa di fare da spina dorsale anche a questo governo, come se a cambiare fosse soltanto l’inquilino di Palazzo Chigi, e il resto no. Grave errore di valutazione, che ha sprofondato Pd e M5s in una crisi gravissima. Il cambiamento di schema ha ribaltato lo schema di Zingaretti, costretto a dimettersi: asse con i 5 Stelle, fiducia incondizionata a Conte e al suo modo di intendere la premiership, appiattimento acritico sulle scelte di Bruxelles. Al termine dell’esperienza giallorossa, il Pd si ritrova spaccato in tre pezzi, lacerato dalle guerre tra correnti, incapace di fare valere una propria linea politica (che non c’è).
E sono esplose anche tutte le contraddizioni dei 5 Stelle, realtà di lotta, di governo, di antipolitica, di movimentismo ma anche di ferreo attaccamento alle poltrone; un movimento che non si decide a diventare partito e che sta perdendo anche l’ultima risorsa in grado di offrire un minimo di struttura, ovvero la Casaleggio Associati, proprietaria della piattaforma Rousseau. Crisi s’intreccia a crisi, con Beppe Grillo che torna a fare il comico e rispolvera una vecchia gag, quella di voler fare il segretario del Pd. “Mi propongo come segretario elevato”, ha detto in un lungo video sul suo blog. Del resto, si era già candidato quando prese la tessera in Costa Smeralda e l’allora segretario, Piero Fassino, l’aveva beffeggiato: “Si faccia un partito”. Grillo lo prese in parola e il M5s è diventato il gruppo parlamentare più numeroso di questa legislatura.
Ad accanirsi sui resti del Pd ci si sono messe pure le Sardine, uscite dalla salamoia in cui si erano rifugiate dopo che la Lega aveva lasciato il governo. Il nuovo nemico dei pesci pilota ora è lo stesso Pd, che dovrebbe uscire dai palazzi e ficcarsi sotto le tende. Se la reggenza del partito sarà affidata a una personalità come Anna Finocchiaro, sarà uno spettacolo tutto da vedere il confronto tra un’ex comunista vecchia scuola e gli sguazzanti pesci azzurri.
Il vero paradosso, tuttavia, è che di solito le crisi dei partiti si riflettono sul governo di turno. È successo così anche al Conte 2. Ma con Mario Draghi questa vecchia regola della politica non viene applicata. Il suo governo è impermeabile allo sgretolamento dei partiti che sostennero il suo predecessore. La tenacia con cui Pd e M5s restano incollati al potere è tale che l’esecutivo non risente di dimissioni e spaccature. D’altra parte, al governo non era rappresentato il segretario del Pd, ma i suoi capicorrente (Franceschini, Orlando e Guerini) che vi hanno messo salde radici. Se Zingaretti lascia, loro si blindano. E Draghi prosegue indisturbato nella navigazione. Facendo suo il vecchio motto romano del “Divide et impera”.
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