Che cosa aspetta ancora la Bce a ridurre i tassi d’interesse? Giovedì si riunisce di nuovo il Consiglio direttivo, ma l’opinione generale è che non sia ancora la volta buona; prevale la prudenza, si andrà a dopo Pasqua, forse l’appuntamento chiave sarà quello dell’11 aprile. Ancora una volta è la Bundesbank a frenare, eppure gli ultimi dati mostrano che l’inflazione è in discesa anche in Germania oltre che negli Stati Uniti. A febbraio i prezzi tedeschi sono cresciuti del 2,7% appena, gennaio ha registrato +2,9%, quindi prosegue il rallentamento che ha portato a dimezzare l’inflazione rispetto allo scorso anno. Negli Usa l’ultimo dato si riferisce a gennaio e mostra un +2,4%. Ormai tra la Bce e la Fed si gioca a rimpiattino, vedremo chi si muoverà per primo, ma l’area euro ha uno svantaggio fondamentale: mentre il Pil americano continua a salire di tre punti percentuali, quello dell’Eurolandia è piatto, pochi decimali sopra zero con Germania, Austria e Olanda che sono sotto. Attendere ancora può rivelarsi un errore colossale. E i recenti interventi di Mario Draghi lo dimostrano.



L’ex Presidente della Bce è troppo uomo di mondo per intromettersi, la politica monetaria spetta alla banca centrale che deve rispettare in piena autonomia il proprio mandato, cioè garantire l’equilibro tra stabilità e crescita. Si potrebbe dire che oggi la bilancia pende a sfavore della crescita, tuttavia il giudizio va dato in un’ottica almeno annuale. Il problema è che non c’è tempo da perdere. E proprio l’urgenza è il filo conduttore di quel che Draghi ha detto all’ultimo Ecofin, a Washington dove ha ricevuto il premio della National association for business economics e martedì scorso alle commissioni del Parlamento europeo.



L’Europa ha bisogno di ingenti investimenti per la transizione energetica ed economica in generale, ma ora s’è aggiunta un’emergenza nuova che sta diventando prevalente: la sicurezza anche militare di fronte all’aggressività russa e ai conflitti nel vicino oriente da Gaza al Mar Rosso. Proprio sulla difesa Draghi ha insistito davanti ai parlamentari che ha invitato a scegliere e a non dire sempre no. Occorre riformare la governance dell’Ue, superare il paralizzante voto all’unanimità (Draghi non lo ha detto in questi termini, però lo ha fatto capire chiaramente), ma per questo ci vuole tempo. Ciò non significa che non si possano fare subito mole cose concrete.



Lo stesso vale per la difesa europea: in attesa di un esercito comune, i Governi possono già oggi muoversi con maggiore sintonia, coordinando le forze che non sono poche. Nel loro insieme i Paesi europei spendono 350 miliardi di euro, quattro volte la Russia, solo che ciascuno lo fa per proprio conto e a modo suo. Probabilmente c’è bisogno di investire ancora di più, ma soprattutto meglio e in modo coordinato. Il coordinamento è essenziale anche per la politica economica. Draghi ha sottolineato la necessità di un dialogo costruttivo tra politica monetaria e fiscale, cioè tra laBbanca centrale, la Commissione e i Governi. Ciò non vuol dire ridurre l’autonomia: la Bce è indipendente, ma non è né sorda, né cieca.

Transizione economica e sicurezza militare richiedono che i centri decisionali europei si muovano in sintonia. Tenere i tassi troppo alti a rischio di indebolire l’Unione sarebbe un tragico errore. L’Italia lo pagherebbe più degli altri. Finora il Governo è riuscito a mantenere la crescita non lontana dall’1% (l’Istat ha rivalutato allo 0,9% l’aumento del Pil lo scorso anno due decimali più del previsto), ma lo ha fatto a costo di gonfiare il disavanzo. L’Istat ha calcolato che il 2023 si chiude con un buco pari al 7,2% del Pil, mentre il governo aveva stimato un 5,3%. La colpa è del Superbonus edilizio costato 76 miliardi di euro anziché i 37 previsti. Un clamoroso errore da parte del Governo che non è corso ai ripari; anzi, ha vantato la tenuta della crescita glissando sul fatto che è stata gonfiata dall’indebitamento dello Stato. Fatto sta che bisogna rifare i conti e il Documento di economia e finanza che verrà presentato il mese prossimo dovrà trovare altri 15-20 miliardi di euro per mantenere l’impegno di scendere al 4,3%.

Se i tassi continuano a restare attorno al 4,5% mentre l’inflazione viaggia verso l’obiettivo del 2%, il costo del debito pubblico continuerà a schiacciare l’economia italiana costringendo il Governo a una politica fiscale austera già quest’anno, magari ricorrendo all’aborrita correzione in corso d’opera. La Banca d’Italia è capofila delle colombe, ma finora non è riuscita a cambiare gli equilibri della Bce. Il Tesoro brinda al successo delle sottoscrizioni di Btp, ma dimentica di spiegare che con una crescita stagnante la torta del risparmio nazionale resta grosso modo la stessa, così ogni euro che va allo Stato è un euro sottratto agli investimenti privati dei quali c’è un estremo bisogno (Draghi docet) per affrontare le nuove drammatiche emergenze.

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