“Definirmi dei Cinquestelle mi sembra formula inappropriata”, aveva detto Giuseppe Conte nove mesi fa, poco prima dell’esplosione della pandemia. E forse in questo suo auspicio provvederà la storia a dargli una provvidenziale mano. Perché intanto che il risultato elettorale del 20 e 21 settembre ha provveduto ha sfumare le mire di spallata del centrodestra consolidando quindi la coalizione giallorossa come il soggetto politico titolato a guidare il Paese fino alla fine della legislatura, i Cinquestelle si stanno squagliando. Rivelando plasticamente l’assoluta inconsistenza ideologica, culturale e morale del loro accrocchio – per una gran parte rappresentato da persone perbene però politicamente inconsapevoli e per il resto da speculatori della visibilità opportunisti ed egotici come Grillo – i Cinquestelle sono oggi disuniti su tutto.
La leadership di Luigi Di Maio detto Giggetto (dal totipotente Vincenzo De Luca, neoplebiscitariamente confermato presidente della Campania) è andata a rotoli. Il fuoco amico su di lui è mosso da Di Battista ma anche da Fico e annovera numerosissimi sostenitori nel Movimento. Grillo, incredibilmente, conta ancora ma questo non corrobora i Cinquestelle, di cui lui è il primo a non avere stima. E dunque?
Dunque, delle due l’una. O gli animal spirits del Movimento prevarranno, inducendo i parlamentari grillini ad una tale fuga per la sconfitta da far saltare la maggioranza attuale in Parlamento ed imporre il riluttantissimo Mattarella a indire nuove elezioni; ma è improbabile. Qualcosa del genere lo fecero i leghisti bossiani contro il primo governo Berlusconi: ma erano altri tempi, altre tempre e anche – perché no – altre ideologie, per balzane che fossero. E soprattutto, senza offesa, da un Bossi si fanno 46 Di Maio e 47 Di Battista. Dunque è immaginabile che i parlamentari grilli premano il bottone dell’autoaffondamento e per odio verso i compromessi con il Pd e gli equibrismi di Conte tolgano la fiducia al governo e lo facciano cadere? Diciamo 5 possibilità su 100.
E allora, al resto pensa lui: Giuseppe Conte. Che sarebbe perfetto nel pilotare quel che resta del Movimento alla sua foce naturale, un abbraccio politico col Pd in salsa di sardine, per recuperare un po’ di slogan di sicura e ovvia presa populista – onestà onestà et similia – e trovare finalmente pace.
Il guaio è che per coronare un’operazione del genere, che potrebbe ben maturare nei prossimi due anni, fino alle prossime elezioni, anche il Pd avrebbe bisogno di qualcosa che non ha: il leader. Ha Zingaretti, bravissima persona, ma non pervenuto sul tema della leadership. E ha vecchi colonnelli. E cacicchietti locali. Punto.
Quindi, auguri ai Cinquestelle. Conte l’aveva detto che “definirlo dei Cinquestelle” gli sembrava “formula inappropriata”. Certo che lassù l’hanno innalzato loro, del resto qualcuno dovevano pur mettercelo e lui aveva il miglior pedigree possibile. Ma la politica non conosce riconoscenza. E l’interesse del Paese – dirà lui – non conosce tabù.
Alla fin fine i Cinquestelle sono un mistofritto senza precedenti all’interno del quale si distinguono da sempre e nitidamente due anime: una di sinistra, ambientalista, sociale, che però vuol governare e cerca di imparare a leggere e a scrivere, per ora senza successo ma di buona lena. L’altra movimentista e fondamentalista, senza alcun pensiero sull’esercizio del governo. La prima non ha leader, la seconda ha Di Battista. La prima è una specie di costola fluttuante del Pd. La seconda è colore locale. Prima o poi Pd e prima anima dei Cinquestelle si coalizzeranno o fonderanno. E forse ci sarà un centrosinistra in Italia.