La Cina appare a molti osservatori nazionali e internazionali come una nazione che esce vittoriosa dalla crisi pandemica. I dati recenti sul Prodotto interno lordo mondiale sembrano confermare questa convinzione. Mentre tutte le altre nazioni di riferimento per comprendere come andrà il mondo, a partire dagli Usa per continuare con la Russia, la Germania, la Francia, il Regno Unito, l’India e per finire con l’Italia, fanno segnare prontissime cadute del Pil, la Cina cresce dell’1 per cento. Così sembra.



L’Italia sempre – da dopo la Prima guerra mondiale ultima dei primi e prima degli ultimi – non fa eccezione, anzi spicca per l’accelerazione della mancata crescita che dura da più di vent’anni. La caduta pandemica del Pil produce sfracelli in ogni dove e allora il soft power cinese, attivissimo in ogni dove, sottolinea quel punto di crescita presunta. La questione è di molto interesse per l’Italia. Perché?



Ma perché è stata l’unica nazione dell’Europa e del G7 a firmare un memorandum con la Cina che di fatto consegna porti e infrastrutture digitali strategiche (con l’aiuto irresponsabile di un Berlusconi che come sempre antepone l’interesse proprio a quello nazionale alleandosi nella partita delle telecomunicazioni sia alla Francia, sia alla Cina).

Ora molti di quegli osservatori se la godono leggendo che il Pil cinese aumenta dell’1 per cento e non leggendo nulla di ciò che di interessante si legge nel mondo su questo. Penso per esempio a David Pilling, che sul Financial Times descrive il declino rapido di quello che chiama “l’imperialismo da debito cinese” in Africa o gli articoli dell’Ifri (l’istituto francese di politica estera che rivaleggia con gli studi dell’istituto statunitense sulla sicurezza nazionale). Per non pensare ai testi in lingua inglese, francese e tedesca sulle reali condizioni politiche ed economiche cinesi.



Da questo punto di vista, l’attenzione internazionale si rivolge al fatto eccezionale che nel corso della riunione del Consiglio del Popolo Xi Jinping ha tenuto solo un brevissimo discorso d’occasione e la relazione centrale anch’essa breve e inferiore a un’ora è stata pronunciata da quello che è il rivale storico di Xi, ossia il primo ministro Li Keqiang, capo indiscusso di una delle catene di comando fondamentali del potere cinese: la Federazione giovanile comunista cinese, che da sempre ha costituito sin dalla Lunga Marcia una corrente che ha sempre lottato, anche contro Mao, contro il potere assoluto nel Pcc e per la direzione collegiale e che non a caso sotto Deng Xiaoping – il padre della Cina moderna – si è iniziata a costruire solo dopo la morte di Mao e solo dopo l’eliminazione radicale della cosiddetta Banda dei Quattro.

Il gruppo di Shanghai e di Bo Xilai, che Xi ha letteralmente sterminato fisicamente sotto il velo della lotta contro la corruzione, sono stati sconfitti dal presidente, ma non lo è stato Li che da anni resiste ai tentavi di eliminazione. La questione aperta di Li e della Fgcc rivela ciò che accade oggi nel potere cinese, scosso come un albero dalla tempesta dalla pandemia e dal fallimento di Xi e della sua concentrazione del potere.

Anche nell’esercito i contrasti aumentano. Dopo la svolta aggressiva cinese teorizzata da una moltitudine di teorici sia militari che civili – e su cui ha richiamato l’attenzione Leonardo Tirabassi in un bellissimo e coraggioso articolo apparso su queste pagine – si assiste oggi a una sorda battaglia scatenata dall’esercito – che ha presidiato la nazione durante la pandemia – contro il predominio economico e burocratico della marina e dell’aviazione, per così ritornare al potere che deteneva quando la politica estera era difensiva e anti–indiana e comportava quindi guerre di terra, a differenza della Via della Seta tutta fondata sul dominio dei mari, come documentano le violazioni del diritto marittimo nei mari della Cina del Sud e nell’Oceano Indiano.

Quell’1 per cento di crescita è di trascinamento in una nazione che prima saliva del 6 per cento del Pil, ammesso e non concesso che i dati cinesi siano veritieri e non falsi come erano sempre quelli dell’Urss, anch’essa una nazione come la Cina a capitalismo monopolistico terroristico di Stato. La differenza sta nel fatto che in Cina sono ancora vive e vegete circa 400 milioni di famiglie capitalistiche piccole e grandi che sono state addirittura chiamate a far parte del Pcc da Deng Xiaoping nella sua liberazione “del gatto purché mangiasse il topo”. Il problema è che il potere neo–maoista assoluto di Xi Jinping mal si concilia con così tanti “kulaki”. Stalin poté ucciderne 40 milioni negli anni Trenta del Novecento. Ucciderne centinaia di milioni è impossibile e questo spiega il tentativo di farli morire di asfissia come si è tentato senza successo prima della pandemia, che è stata provvidenziale per Xi. Il quale aveva tentato di imporre quella legge che avrebbe segnato la parola fine per la borghesia cinese che trovava in Hong Kong la vena giugulare di comunicazione con il sistema circolatorio della finanza capitalistica mondiale che nutre con essa la Cina.

Questo la vecchia guardia dengxiaopinghista non lo vuole, così come non vuole una guerra con gli Usa che la politica di Xi rende invece prima o poi inevitabile. Così inevitabile che ha provocato il serrare i ranghi delle élite nordamericane che da Biden a Trump si sono ritrovate – pur divise su tutto – unite nel prepararsi a un roll-back anti-cinese. Esso non può che fondarsi su nuovi investimenti massivi nell’aviazione e nella marina rispetto alle truppe di terra. E questo spiega la freddezza nei confronti della Nato e i conflitti che ciò produce in seno alle nazioni europee.

La Germania continua a proporre la sua leadership non solo europea ma mondiale alleandosi sempre più strettamente con la Cina. E questo mentre il lago Atlantico-Mediterraneo è in fiamme e si sfiora la guerra in Libia. Guerra per procura tra la Turchia, che aderisce alla Nato, e la Russia che Nato e Usa avversano. Il tutto mentre il mondo va sregolandosi e destatualizzandosi. Ma se il mondo va a rotoli è possibile che dal suo sgomitolarsi  sorga un ricomporsi delle fila della storia e che Usa e Russia ritornino a quel dualismo competitivo che è l’ultima speranza prima della fine del mondo.

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