Le applicazioni di intelligenza artificiale possono favorire una forte crescita della produttività ma un contemporaneo incremento dell’impatto dei fattori che hanno destabilizzato i modelli di tutela del lavoro e del Welfare nei paesi sviluppati nel corso degli anni 2000: la rapida obsolescenza dei profili professionali, la delocalizzazione delle produzioni a livello globale, l’invecchiamento della popolazione.
La capacità di contenere i costi sociali e di redistribuire equamente i benefici in termini di reddito e di accesso ai nuovi servizi dipenderà dal tasso di innovazione sociale generato dalle istituzioni e dalle rappresentanze sociali. In un recente articolo dedicato al tema abbiamo evidenziato tre ambiti di innovazione: il ripensamento dei rapporti tra il capitale e il lavoro per valorizzare il ruolo delle risorse umane, le riforme delle prestazioni sociali che possono offrire risposte ai nuovi fabbisogni delle persone anziane, l’adeguamento delle governance degli interventi per coinvolgere in presa diretta i protagonisti economici e sociali che possono offrire soluzioni e mobilitare le risorse per queste finalità.
La transizione digitale si presenta assai problematica nel caso italiano per via del tasso ridotto di occupazione (circa 9 punti meno rispetto alla media dei paesi UE equivalenti a poco meno di 3 milioni di posti di lavoro), per la particolare concentrazione di una parte rilevante degli occupati nelle fasce professionali medio basse, per la riduzione attesa della popolazione in età di lavoro (meno 4 milioni entro il 2035). Negli ultimi tre anni la domanda di lavoro è risultata superiore all’offerta di lavoro per la carenza di competenze coerenti con i profili professionali richiesti ovvero per la mancata disponibilità dei lavoratori a svolgere determinate mansioni (mismatch). Un fenomeno che ha favorito la propensione delle imprese ad assumere a tempo indeterminato i lavoratori disponibili, ma che mette in rilievo la scarsa capacità del sistema formativo complessivamente inteso, di offrire un contributo per generare le risorse umane per trasferire e utilizzare le tecnologie digitali nelle organizzazioni del lavoro.
La qualità del nostro mercato del lavoro risulta penalizzata dalle dinamiche negative dei salari reali che risentono della decrescita degli investimenti e della bassa produttività del capitale e del lavoro in molti comparti dei servizi privati che hanno un peso rilevante sull’occupazione totale. Sulla riduzione dei salari medi pesa il blocco del turn over della pubblica amministrazione nella seconda decade degli anni 2000 e il mancato sviluppo dei settori della sanità, dell’assistenza sociale e dell’istruzione che hanno svolto un ruolo importante per la crescita dell’occupazione e per l’impiego di giovani e donne laureate in molti paesi europei. L’incidenza della spesa sociale italiana sul Pil risulta del tutto allineata a quella media dei paesi UE (33%), ma risulta superiore per la componente pensionistica e la quota destinata ai sostegni ai redditi, mentre è inferiore per quella dedicata alla sanità e all’istruzione ( per un importo medio equivalente a 2 punti del Pil anno e di circa 500 mld di mancati investimenti nel corso degli ultimi 15 anni).
Le dinamiche descritte sono destinate a subire un ulteriore deterioramento, per le conseguenze dell’invecchiamento della popolazione sul versante della domanda e offerta di lavoro (un esodo di lavoratori anziani che sarà di gran lunga superiore a quello dell’ingresso delle giovani generazioni) e per la sostenibilità delle prestazioni sociali, con un aumento delle persone a carico della collettività e la riduzione del numero dei potenziali lavoratori contribuenti.
Nel caso italiano, l’impiego diffuso delle tecnologie digitali potrebbe rappresentare una risposta a questi problemi. Ma la transizione digitale non dipende solo dalla dotazione di tecnologie e di infrastrutture, ma dalla massa critica delle risorse umane imprenditoriali, manageriali, tecniche ed esecutive in grado di trasferirle e di utilizzarle nelle organizzazioni del lavoro. L’aumento delle risorse umane competenti può avvenire a tre condizioni: che l’obiettivo di rigenerare la quantità e la qualità della popolazione attiva venga assunto come una priorità assoluta nelle politiche istituzionali; che per lo scopo vengano riformate le misure del Welfare per orientare la domanda pubblica di prestazioni, per rendere gestibili le transizioni lavorative e per soddisfare i fabbisogni di cura delle persone; che la razionalizzazione dell’utilizzo delle risorse pubbliche per queste finalità sia affiancata dal concorso delle rappresentanze del mondo del lavoro, delle istituzioni formative e delle organizzazioni del terzo settore.
Il cambio di paradigma è evidente. Ereditiamo una stagione di politiche orientate a soddisfare una domanda crescente di interventi da parte dello stato rivolti a risarcire le persone e le categorie danneggiate dai processi di ristrutturazione dell’economia. Nel corso degli ultimi 15 anni i trasferimenti dello stato all’Inps per finanziare le prestazioni assistenziali, i pensionamenti anticipati, i sostegni ai redditi, i bonus di varia natura, gli sgravi contributivi per le assunzioni e per le retribuzioni hanno mobilitato circa 600 miliardi di euro di spesa corrente aggiuntiva. Una mole enorme di risorse che ha contribuito in modo paradossale ad alimentare il flusso delle persone a carico della collettività e la pressione fiscale sui ceti produttori.
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