Il primo ministro Giuseppe Conte rilascia un’intervista chilometrica a “Il Foglio“. È problematico immaginare quanti siano riusciti a leggere il lunghissimo testo che non rivela nessuna novità di linea politica, ma solo una rimasticatura delle cose ripetute da mesi, con un impasto di speranze confuse e aree. Occorrerà comunque ricordarsi alcune dichiarazioni del Premier e qualche proclama del tipo: “L’Italia è stata la prima a indicare la lampadina della fiducia nella stanza buia della crisi economica, intuendo subito che l’interruttore giusto non sono le vecchie ricette dell’austerità e dei tagli indiscriminati,. Ora l’aria è cambiata”. Insomma, adesso dovremmo vedere all’opera una sorta di nuovo John Maynard Keynes che arriva direttamente dalla Puglia. Per giudicare gli uomini politici occorre sempre ricordarsi alcune dichiarazioni piuttosto roboanti.



Intanto, mentre Conte fa promesse, i progetti che dovrebbero essere pronti per metà ottobre per il “Recovery fund” non li conosce ancora nessuno. Magari sono stati “riservati”. Però non siamo tanto lontani da quella data del 15 ottobre. Vedremo le sorprese.

Intanto, persino Paolo Gentiloni, intervenendo qualche giorno fa, ha fatto presente alcune cose che dovrebbero mettere sull’avviso il Premier italiano così paternalistico e tanto disinvolto da apparire, in qualche occasione, quasi cinico o marziano. Il Commissario europeo ha precisato che con gli stanziamenti che si devono (altrimenti sono guai) ottenere con il “Recovery fund” non c’è spazio per un alleggerimento della tassazione; che occorrono interventi mirati, dettagliati e strutturali; piani precisi; che non ci sarà alcun anticipo. La “ciliegina sulla torta” Gentiloni l’ha messa in un discorso a una Festa dell’Unità dove ha detto che voterà “Si” al referendum, ma che non si applaude per questa scelta, così come ha fatto la platea che lo ascoltava.



In sintesi, Gentiloni sembra aver invitato a guardare con attenzione a questi prossimi dieci giorni in cui il Governo pare che stia cercando (ancora una volta) di guadagnare solamente tempo, avvertendo però che prima o poi arriverà il momento delle scelte oppure l’Italia, non solo questo Governo evanescente, si troverà in un mare di guai.

Andiamo con ordine partendo dal 14 settembre 2020, quando milioni di studenti ritorneranno nelle aule scolastiche in un clima di confusione che è difficile non sottolineare. Si dice che è una prova decisiva sotto diversi punti di vista: sanitario, di partecipazione degli studenti, di partecipazione del corpo insegnante e più in generale di logistica, con tutta una serie collegata di problemi connessi ai trasporti degli alunni, all’ingresso nelle aule.



Ora non si può sostenere che sia andato tutto storto e forse è anche importante che sia stata rispettata la data di apertura. Ma bisognerà pure ammettere che su un’istituzione cardine di uno Stato, come la scuola, non ci si può dividere su chi misura la temperatura corporea, sui banchi con le rotelle e sui ritardi che si sono accumulati in questi mesi: è un aspetto mortificante di un problema cruciale.

E l’impressione che se ne ricava è che sia Conte che la ministra dell’Istruzione, Lucia Azzolina, stiano quasi facendo una scommessa. Con la speranza che di fronte a delle difficoltà si possa correggere in corsa la scelta fatta con l’inevitabile riapertura della scuola. Complessivamente, il tutto, sia per l’atteggiamento dei presidi, sia per quello dei sindacati, sia per l’apprensione delle famiglie, sia per l’atteggiamento del Governo stesso è contrassegnato da una grande confusione e da una grande incertezza.

Ci possono essere reazioni a un “incidente scolastico”? Difficile rispondere. Il Governo di Giuseppe Conte può anche svicolare da questo “appuntamento” chiave, ma solo una settimana dopo deve affrontare un banco di prova elettorale che, anche se continua a minimizzarlo e a relegarlo in una consultazione regionale, si può rivelare tutt’altro che semplice per l’esecutivo e per la stessa maggioranza di governo, sia per i “pentastellati”, sia per il Partito democratico.

Allora, si vota per una sorta di “referendum dimenticato”: la riduzione secca dei parlamentari sia alla Camera che al Senato, senza neppure un adeguamento costituzionale razionale, ragionato e conforme agli sviluppi che quasi tutte le democrazie occidentali hanno già affrontato. Alla fine, la ragione fondamentale che viene adottata per la riduzione dei parlamentari è di carattere puramente economico, di risparmio, quello che Carlo Cottarelli ha ridicolizzato con un 0,007% del bilancio statale.

In questi termini, l’Italia sembra una democrazia “fatta a fette”. In epoca di antipolitica trionfante, i sondaggi sul “Sì” superavano l’80%, oggi i consensi sono calati di molto, ma soprattutto all’interno di un partito come il Pd c’è una visibile spaccatura che le scelte di Nicola Zingarelli non hanno rimarginato. La morale della storia è che se vince il “Sì” possono fare festa (poco) i “pentastellati”, ma si approfondisce la spaccatura nel Pd. In più il partito di Matteo Renzi aumenterà la polemica sia contro Zingaretti, sia nella coalizione di cui pure fa parte. Un pandemonio ambulante e rotolante verso i prossimi mesi.

Ma oltre il referendum ci sono sette regioni che vanno al voto e almeno in quattro, da sondaggi piuttosto riservati, il centrodestra sembra in vantaggio. Questo segnerebbe un ribaltamento del potere nelle regioni.

Su tutto poi, grava anche la partecipazione al voto, sia a quello referendario che a quello regionale. Ma una scarsa partecipazione gioverebbe all’immagine di una democrazia che viene messa spesso in discussione in questi ultimi tempi per il ruolo sempre più marginale del Parlamento?

Ci si può nascondere dietro a molte giustificazioni e a ragionamenti sofisticati, ma la sensazione è che il 22 settembre cominci una sorta di “resa dei conti”. Difficile immaginare se ci sarà un “rimpasto”, una “crisi”, un “commissariamento” di carattere tecnico, con un governissimo di larghe intese, ma solo al termine di questi difficili dieci giorni, che possono diventare decisivi, si vedrà sicuramente almeno una svolta per i piani del “Recovery fund”.