La notizia da Strasburgo è passata quasi inosservata sui media italiani. E quelli che l’hanno registrata ne hanno ignorato ogni risvolto politico in Italia. Il candidato-bis francese alla Commissione Ue, Thierry Breton, ha superato il primo esame della commissione giuridica del Parlamento europeo, ma con un voto risicatissimo: 12 sì e 11 no.



La designazione del tecnocrate indicato dal presidente Emmanuel Macron – dopo la clamorosa bocciatura di Sylvie Goulard – non è ancora al traguardo: dovrà attraversare le commissioni Mercato interno, Industria, Difesa e Digitale, dove il tema spinoso dei conflitti d’interesse di Breton potrebbe riemergere. Infine, sarà la volta della fiducia ultima del plenum di Strasburgo all’intera Commissione von der Leyen: che avrebbe dovuto esordire il 1° novembre e invece è finita in un limbo imbarazzante e senza precedenti nella storia dell’Europa di Maastricht.



Il passaggio di Breton nella prima “cruna dell’ago” ha, da un lato, riacceso un pallido ottimismo sul debutto della “commissione Ursula” prima di fine anno, ma, dall’altro, ha disegnato nuove nuvole sull’orizzonte di Bruxelles. La maggioranza politica che in estate aveva faticosamente partorito il nuovo governo dell’Unione è andata in frantumi sul caso Goulard-Breton. Contro la nuova candidatura francese ha infatti votato il Pse, affiancato da Verdi e sinistra (Gue). Breton è passato con i voti di Ppe, Re (i liberal-democratici appoggiati da Macron), i conservatori e “sovranisti di governo” imperniati sugli eurodeputati polacchi. Dunque, la storica maggioranza “legittimista” – imperniata sull’asse Ppe-Pse – non esiste più.



Al suo posto sta prendendo forma un nuovo centrodestra europeo, che ha i suoi pilastri nei popolari tedesco-centrici e nei liberali macroniani, ma senza chiusure o timori verso forze più a destra o addirittura problematiche sulla tradizionale Europa carolingia e tecnocratica. La presidente tedesca designata – ex ministro Cdu del governo Merkel – non è certo disomogenea a questo quadro, di cui però la vera leader appare sempre più la vicepresidente vicaria danese Margrethe Vestager, confermata all’Antitrust e già uscita allo scoperto con un profilo di virtuale “co-presidente”.

Appare, quindi, superata la “piccola coalizione” che ha inizialmente votato a Strasburgo la fiducia a von der Leyen: cui peraltro mancarono già alcuni voti dal Pse (soprattutto dagli eurodeputati Spd tedeschi) e vennero in soccorso anomalo i voti dei 5 Stelle italiani, “cani sciolti” dell’Europarlamento.

La motivazione e l’impatto successivo di quella scelta furono essenzialmente interni: nel luglio scorso era già in preparazione il ribaltone italiano orchestrato dal premier grillino Giuseppe Conte. Un’operazione apertamente appoggiata da un ex presidente di commissione Ue, Romano Prodi, e dal Pd italiano affiliato al Pse. Né era risultata estranea alle manovre in corso fra Roma, Strasburgo e Bruxelles – volte a espellere la Lega di Matteo Salvini dal governo italiano – la nomina inattesa del dem italiano David Sassoli alla presidenza dell’Europarlamento.

Cento giorni dopo in Europa sta decollando un ribaltone di segno opposto. Mentre a Roma il “governo Orsola” – benedetto da un’Europa in rapido invecchiamento – non è mai davvero decollato e sta correndo il serio rischio di schiantarsi subito al suolo.