Chi si augurava di incontrare un Volodymyr Zelensky pronto a sedere al tavolo della pace è rimasto deluso. Sabato a Roma è arrivato un condottiero baldanzoso, che si sente forte e che, di conseguenza costringe i suoi sostenitori a non rallentare gli sforzi per sostenere la causa dell’Ucraina.

Senza mezzi termini ha detto a Papa Francesco di non aver bisogno di mediatori, perché sul campo sta tenendo a bada agevolmente l’esercito russo, e la pace non può che essere quella dettata da Kiev. Vuole trattare quando si troverà in una posizione di forza, anche se per arrivarci ha bisogno di altre armi, e i magazzini occidentali sono ormai stati svuotati.



Al netto del lavoro discreto delle diplomazie (che può distanziarsi di molto dalle dichiarazioni ufficiali), si tratta di una mezza doccia fredda, da cui non è immune il Governo italiano. Da Mattarella a Meloni, tutti si aspettavano qualcosa in più in termini di segnali di pace. A uno Zelensky così duro non eravamo preparati, anche se gli osservatori più avveduti avevano avvertito.



Per il nostro Paese il bilancio della visita è comunque positivo: finalmente il presidente ucraino è venuto a Roma, ed ha riconosciuto che il sostegno italiano non ha avuto alcuna battuta d’arresto nel passaggio fra il governo Draghi e quello Meloni. Una patente di coerenza e di atlantismo che costituiscono un rilevante capitale politico da investire nel futuro, ma che hanno un presente oneroso.

Se, infatti, l’ex premier si guadagna una telefonata di ringraziamento, all’attuale inquilina di Palazzo Chigi tocca il peso di rispondere alla preoccupazione numero uno degli ucraini, quella che l’allungarsi dei tempi del conflitto non facciano venir meno il sostegno occidentale.



Intendiamoci: è un problema per tutti i Paesi, pure per un’America ormai lanciata verso le prossime elezioni presidenziali. Ma è una grana notevole per un governo come il nostro, nel quale i partner di governo di Meloni nel passato hanno manifestato ammirazione ed amicizia per Putin. Vale per Berlusconi, ma vale soprattutto per Salvini, anche se – intervistato da Bruno Vespa – Zelensky ha assicurato che si sarebbe incontrato volentieri con lui e che su presunti dissapori con il leader della Lega c’è stata disinformazione.

Il fattore tempo è comunque essenziale. Ai dubbi di Salvini e Berlusconi, si aggiunge l’aperto ostilità di Conte a continuare l’invio di armi. E per fortuna di Meloni la gestione Schlein non ha finora modificato la posizione filo-Kiev del Pd, sponda preziosa del governo, al pari di quella di Calenda e Renzi. Il rischio che l’attuale sostegno alla causa ucraina si incrini rimane però reale, soprattutto nell’opinione pubblica, e cresce con l’allungarsi dei tempi, con una controffensiva più volte annunciata e – di fatto – non ancora cominciata.

Altrettanto decisivo è il fattore tempo sul piano europeo. C’è un fronte dei Paesi dell’Est terrorizzati da Mosca che non ha alcuna intenzione di deflettere. La Polonia, i baltici, ma anche Finlandia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Romania. A questo fronte si iscrive senza tentennamenti l’Italia del binomio Mattarella-Meloni. Se si conta che la quinta colonna di Mosca rimane l’Ungheria di Orbán, decisivo sarà l’atteggiamento di Francia e Germania, non a caso tappe di Zelensky dopo Roma. E se a Berlino ha registrato con soddisfazione lo spostarsi deciso del cancelliere Scholz nel campo dei sostenitori di Kiev (dopo le esitazioni di inizio conflitto), a Parigi Macron è in difficoltà sul fronte interno, e quindi farà fatica a non intiepidire il suo appoggio.

L’impressione è che in un’Europa impantanata su tutti i fronti (dai migranti alla rinegoziazione del Patto di stabilità) il convinto sostegno italiano a Kiev possa pesare, ma non abbastanza. Zelensky chiede di accelerare il proprio ingresso nell’Unione, ma ancor di più vorrebbe l’ombrello della Nato, cosa su cui l’Alleanza frena perché troppo alto sarebbe il rischio di uno scontro diretto con la Russia.

Il tempo in cui le armi finalmente taceranno non sembra quindi vicino, tanto è vero che già si parla di come affrontare il secondo inverno di guerra. Una spinta decisiva per arrivare a un negoziato vero non verrà quindi dall’Europa, ma forse solo da un’azione convergente di Stati Uniti e Cina. Difficile, ma non impossibile.

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