Dopo avere sommessamente convocato l’ambasciatore turco a Roma, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha aggiunto un altro timido pigolio sulla crisi tra Ankara e i territori curdi nel nordest della Siria. Il mite ministro ha chiesto che tutta l’Europa blocchi l’invio di armi in Turchia. Un gruppo di Paesi (Germania, Francia, Olanda, Norvegia, Finlandia) sono già passati alle vie di fatto decretando la fine delle forniture. L’Italia no, non ha posto nessuno stop, ma si è limitata a chiedere che l’embargo venga esteso a tutto il continente. Di Maio non vuole sentirsi solo, non ha il coraggio di prendere un’iniziativa unilaterale e scontentare i produttori di materiale bellico.



Mentre il Medio Oriente si surriscalda, la nostra politica estera si raffredda. Domani si riunisce il Consiglio dei ministri degli Esteri dei 28 e Di Maio si presenterà con una propostina fiacca. Eppure, una ripresa di iniziativa contribuirebbe a ridare smalto all’immagine dell’Italia, che ne avrebbe tanto bisogno. Un Paese autorevole sugli scacchieri di crisi, protagonista sulla scena internazionale, potrebbe guadagnarsi anche la forza di battere i pugni sui tavoli delle trattative con Bruxelles quando si tratterà di faccende che ci riguardano più da vicino, come la “rimodulazione” dell’Iva o la flessibilità da applicare ai conti pubblici.



Invece, da Di Maio in giù è tutta una gara al ribasso. Sarà la paura di pagare pedaggio alla lobby dei fabbricanti di armi; sarà il timore di incrinare i rapporti commerciali con la Turchia, un Paese sempre più forte sotto l’aspetto economico, o di compromettere gli interessi delle aziende italiane che hanno delocalizzato oltre il Bosforo; sarà la potenza del ricatto di Erdogan che ha promesso di rovesciare sull’Occidente i 3 milioni e mezzo di rifugiati siriani ospitati nelle tendopoli in Turchia. Sarà tutto questo assieme: fatto sta che non c’è traccia di un’iniziativa qualificata dell’Italia in quest’area. Nemmeno il coraggio di denunciare l’uso dei profughi come arma politica, un fenomeno che le mosse di Erdogan portano chiaramente alla luce.



Non è un momento felicissimo per la nostra politica estera. L’accordo di Malta sulla ricollocazione dei migranti, fortemente patrocinato dal ministro dell’Interno Lamorgese, non è stato nemmeno preso in esame dai partner. Dal Russiagate salviniano al più recente “Contegate”, i contatti tra i nostri governanti e le potenze straniere (nella fattispecie Russia e Stati Uniti) sono avvolte da fitti strati di misteri. La politica commerciale con la Cina è un rebus. Non c’è un dossier di un certo peso in cui l’Italia abbia seriamente voce in capitolo. E infine le aperture che Bruxelles doveva concederci in materia di bilanci si stanno rivelando promesse da marinaio. Avessimo la capacità di proporre visioni e soluzioni, e la forza di farle valere nei negoziati internazionali, questo aiuterebbe a conquistare autorevolezza anche nelle trattative con i partner sulla manovra finanziaria. Così invece torneremo ancora una volta davanti alla Commissione con il cappello in mano.