Lo scenario politico è entrato in fibrillazione dopo che le elezioni regionali, pur nella diversità delle situazioni locali e del partito dei candidati, hanno visto la sconfitta dei vincitori delle elezioni politiche del 2018. Né il M5s né la Lega sembrano avere più il vento in poppa e appaiono, anzi, alle prese con seri problemi di “riposizionamento del prodotto sul mercato”. In sostanza con l’incombere dell’emergenza sanitaria ed economica sembra sgonfiarsi l’Italia del “vaffa” e del “no euro”. L’antieuropeismo dopo il Recovery Fund da 209 miliardi di Bruxelles non mobilita folle di protesta in piazza. Più in generale  lockdown e smart working hanno cambiato il “clima” sociale. Il mito dell’“uomo qualunque” in parlamento e al governo ha affascinato finché non ci si è trovati ad aver bisogno di esperienza e di alleanze in campo internazionale. È diminuito il desiderio per la politica amena, il luna park con leader muscoloso, pubblico, pop corn e tiro a segno su regole istituzionali e finanziarie.



L’elettorato di fronte alla crisi ha scelto la stabilità, l’usato sicuro. I “governatori” – sia di destra sia di sinistra – sono stati confermati con consensi anche plebiscitari. C’è stato uno spostamento solo nella regione più piccola, le Marche, mentre anche in Toscana nell’emergenza ha prevalso una sostanziale continuità. I leader delle Regioni di entrambi gli schieramenti con la pandemia si sono straordinariamente rafforzati e in certi casi anche risuscitati. Se in marzo dal governo si levavano voci che invocavano una controriforma sanitaria per sottrarre potere alle Regioni, oggi è ben difficile ridimensionare i “governatori”.



Inoltre proprio il trionfo degli uscenti – da Zaia e Toti a Emiliano e De Luca – indica come l’intreccio tra voto regionale e referendum costituzionale non dia un’indicazione in senso “grillino”: più che democrazia diretta e assemblearismo emerge una spinta verso presidenzialismo e decisionismo con superamento del bicameralismo perfetto. Più che di eletti estratti a sorte oggi è invece più forte la rivendicazione del potere degli elettori di scegliere gli eletti (competenti e radicati nel territorio).

Lo stato di crisi dei vincitori del 2018 sta quindi provocando un generale rimescolamento delle carte nel centro-destra e nel centro-sinistra. Il movimento fondato da Beppe Grillo dopo aver governato prima con la destra e poi con la sinistra è in crisi evidente: a rischio di sopravvivenza nei territori, panico tra i parlamentari e il premier Conte indaffarato nel cancellare e correggere quanto fatto con il Conte 1 (dai decreti sicurezza al reddito di cittadinanza) mentre le vertenze gli sfuggono di mano: dai Benetton all’Ilva.



A sua volta Matteo Salvini, cresciuto governando con Conte e Di Maio, risulta però inchiodato in modo monotematico sull’emergenza migranti. La precedente gestione era stata talmente impopolare che il protagonista, Alfano, era uscito di scena senza nemmeno ricandidarsi alle elezioni. Ma ora nella Lega cresce l’insofferenza per gli ingombranti bagagli di Salvini che vanno dai rapporti con Marie Le Pen e la Russia di Putin all’euroscetticismo con le sue assurdità su “cigno nero” e “minibot”.

La posta in palio è infatti la conquista dell’area di centro che il declino berlusconiano ha lasciato sguarnita. È in quella direzione che si preme – da Zaia e Giorgetti – lasciando perdere la rincorsa dei neofascisti di “Forza Nuova” e i progetti di Steve Bannon che scambiando l’Italia per l’Alabama d’Europa pensava di animare un Ku-Klux-Kan contro il Vaticano.

A sua volta anche a sinistra, nel Pd, si pone l’alternativa se puntare alla “alleanza strategica” con il M5s oppure alla conquista del centro. M5s e area di centro sono infatti inconciliabili. Matteo Renzi ha registrato sconfitte proprio perché promuovendo una scissione del Pd da destra è poi rimasto al governo con i grillini condannando così – già in partenza – Italia Viva a un impossibile decollo.

Nelle prossime elezioni amministrative, soprattutto in comuni importanti del Nord, i sindaci uscenti sono del M5s e del Pd perché nel 2016 il centro-destra andò diviso a Torino e a Milano Salvini non fece votare il candidato di Berlusconi, Stefano Parisi. In particolare nel capoluogo lombardo il risultato del referendum ha fatto registrare oltre il 43 per cento di No. Un dato da non trascurare. Non è stato certo per amore del numero dei parlamentari, ma per sostanziale stanchezza verso la demagogia di una politica “a furor di popolo”. Quando l’emergenza sanitaria ed economica hanno dimensioni di straordinaria drammaticità non c’è bisogno di infantile e rabbiosa “tabula rasa”, ma di solidale e saggia ricostruzione.

Se il Pd pensa di andare al voto comunale con il programma (sia pure con l’espediente di rinviare la convergenza al ballottaggio) di portare Beppe Grillo ad avere voce in capitolo sul che fare a e di Milano, darà buone possibilità all’esponente moderato della “società civile” che verrà candidato dal centro-destra.