“Quante divisioni ha il Papa?”, chiese ironicamente Stalin alla conferenza di Yalta agli altri grandi del mondo. Già: e oggi, quante divisioni ha Draghi?
Le divisioni – certo non quelle corazzate – le ha la politica italiana. Ma miracolosamente queste divisioni si superano su un comune ideale: restare abbarbicati alle rispettive poltrone. L’harakiri politico di Matteo Salvini ha segato sotto le natiche dei leghisti le gambe delle poltrone di governo che occupavano, ma non pare abbia corroso quelle delle poltrone amministrative. I beneficiati di quell’insania – dunque i piddini – si sono consumati le palpebre a furia di stropicciarsi gli occhi increduli della miracolosa resurrezione donata loro dal tafazzismo del Capitano.
E i grillini? Ma quelli sono ragazzi meravigliosi, come dice sempre il loro burattinaio cabarettista. Sono ragazzi meravigliosi e meravigliosamente attaccati alla greppia delle pubbliche prebende che gli è toccata inopinatamente in sorte.
Dunque riepiloghiamo.
C’è un italiano che il mondo ci invidia, e non è Fedez. È Mario Draghi. Ha gestito un mandato presidenziale incandescente alla Banca centrale europea durante il quale, contrastando il suo azionista di maggioranza, cioè la Germania, è riuscito a contrastare anche una crisi monetaria che, attraverso l’attacco agli anelli deboli della catena europea – Italia e Grecia, innanzitutto – avrebbe puntato con gioia a scardinare tutta la costruzione di Bruxelles.
Lui ha imposto ai tedeschi la sua visione autenticamente europeista. Ha dato tempo ai peggiori – noi – di rimpannucciarci un po’. Ha trasformato l’inutile Bce in una Fed dissimulata, chiudendo almeno in parte così il gap monetario che divideva l’Europa dagli Usa.
Ora che è un privato cittadino si è ritagliato il ruolo di padre nobile e di veglio della montagna di un Occidente che ha smarrito non tanto i saggi di cambio tra valute – quelli resistono – ma il senso della sua storia e la visione del suo futuro. Un Occidente tirato per la giacchetta dai sovranismi, impastoiato in una crisi decadentista della democrazia liberale che trasforma i governi in cuori fibrillati incapaci di imprimere un qualsiasi ritmo alle società civili, esposti al primo stormir di Greta, imbambolati dalle autocrazie – quelle serie di Mosca e Pechino, e quelle trucemente ridicole come Budapest e Minsk – e incapace di reagire. Di riaffermare se stesso.
In questo ruolo distante, da pensionato a sette stelle (cinque per carità no, giammai), Mario Draghi ha detto all’inizio della pandemia, e ben prima che lo dicesse la Merkel, che l’unico modo per contrastare la crisi economica da Covid era fare debito. È stato ascoltato. Pochi giorni fa, da Rimini, ha detto che l’unico modo per non sperperare il denaro derivante da questo nuovo debito e dar modo ai giovani di ripagarlo è fare progetti a lungo termine. Speriamo venga ascoltato.
Ci sono ogni tanto questi emigrati di lusso – oggi Draghi, ma diversamente anche Renzo Piano, una volta c’erano Pavarotti, Marchionne, nel suo ambito c’è Riccardo Muti e pochi altri – che traggono credibilità e carisma nel nostro paese – paese di gaglioffi – essenzialmente dal loro starsene fuori dalle scatole. Li ammiriamo, ma come si fa con i grandi quadri impressionisti: a prudente distanza.
Draghi è appunto tra questi profeti fuori patria. Non c’è un “partito di Draghi” votato a evocarlo, a farlo tornare a un tempo pieno istituzionale italiano per salvare il Paese dalla chiarissima sotto-capacità governativa dell’attuale compagine, con buona pace degli sforzi o forse delle velleità di Conte.
Non c’è un partito di Draghi perché Forza Italia – il cui bollitissimo fondatore può vantarsi di aver inventato il Draghi internazionale avendolo molto sostenuto per la nomina in Bce, ma tutti nei giri giusti sanno che Berlusconi non ebbe alcun vero ruolo – non conta niente. Il Pd, che ebbe Draghi oggettivamente come tecnico fiancheggiatore nei governi dell’Ulivo, non osa muovere mezzo passo che possa compromettere anche soltanto un grammo del poterucolo che ha riconquistato per grazia salviniana ricevuta. I Grillini per carità. Fratelli d’Italia e Lega non scherziamo nemmeno.
Cosa resta? La società civile? Vogliamo rimanere seri o seguitare con le battute?
E poi: Draghi non sta mica lì a sfogliare la margherita – “mi chiamano, non mi chiamano”. Scenderebbe in campo soltanto a furor di popolo. Già: quale popolo? Con tutta la stima, il popolo non sa chi lui sia.
C’è solo un partito ombra che lavora per Draghi. Il partito – numeroso ma silente – di chi non crede che quest’armata Brancaleone di maggioranza politica che alligna nel Paese possa varare qualcosa di decente come piano europeo, prevede che all’evidenza di questa incapacità lo spread s’impenni ai livelli pre-montiani e spera che a quel punto il Quirinale prenda le redini del disastro e chiami il Demiurgo. Ma, ecco: l’unico partito che gioca per Draghi al potere è il partito del disastro. Se le cose precipitano come le forze di governo stanno inconsapevolmente cercando di far sì che accada, allora si chiamerà il Settimo Cavalleggeri, Superman o Iron Man o Draghi, diciamola come vogliamo. Ma non lo faremo per niente di meno che un disastro.