In un recente articolo di Paolo Annoni sul Sussidiario c’è una frase che richiederebbe un’attenta riflessione: “Il comportamento della Germania in questa fase è razionale solo assumendo la convinzione che l’euro è destinato a finire”. Il riferimento è allo sfruttamento dell’euro solo ai propri fini e alla pervicacia nel mantenere un illogico surplus commerciale. Un comportamento in aperta violazione delle regole dell’Ue e il mancato investimento dell’avanzo commerciale danneggia l’intera Unione, soprattutto i Paesi più deboli. Il silenzio di Bruxelles in proposito è una chiara dimostrazione di chi siano realmente i sovranisti.



Inevitabile pensare che Berlino stia mettendo “fieno in cascina” per il dopo euro e che questo faccia parte di una precisa strategia perseguita da tempo. Nell’ormai lontano 2011, il Sussidiario pubblicava un’interessante intervista a Joachim Starbatty, professore emerito di economia politica all’Università di Tubinga. Vale la pena di rivederne alcuni punti che evidenziano questa possibile strategia.



Per cominciare, Starbatty addebita all’euro le difficoltà dei cosiddetti “Pigs”: Portogallo, Irlanda, Grecia Spagna, cui venne poi aggiunta anche l’Italia. Ecco l’esplicita dichiarazione del professore: “Se fossero rimasti fuori dall’euro, avrebbero dovuto pagare tassi d’interesse più alti, non ci sarebbe stata nessuna bolla immobiliare e avrebbero potuto svalutare in proporzione alla loro declinante capacità competitiva”. È la posizione originale tedesca di un euro a due velocità, ma occorre ricordare la grande responsabilità dei governanti italiani di allora, che vollero a tutti i costi entrare nell’euro, accettando un cambio lira-euro suicida.



Starbatty prevedeva poi che, se l’Italia avesse perseguito il risanamento del bilancio attraverso l’aggravamento dell’imposizione fiscale e la riduzione della spesa, sarebbe caduta in recessione. L’intervista è della fine del 2011, poco dopo l’insediamento del governo Monti, e negli anni successivi è avvenuto esattamente quanto previsto nell’intervista. Starbatty si mostrava anche molto scettico sulla possibilità che i Paesi in difficoltà potessero essere aiutati dall’Ue: “Questi Paesi possono recuperare la capacità di competere sul piano internazionale solo uscendo dall’Unione monetaria e svalutando le proprie monete nazionali”. Questa drastica affermazione derivava dalla convinzione che l’euro fosse destinato a crollare, restando solo da chiarire chi se ne sarebbe andato, se gli Stati “virtuosi” o quelli in crisi.

Nell’intervista, il club dei virtuosi era identificato dalla “tripla A” assegnata al debito: Germania, Finlandia, Francia, Lussemburgo, Olanda e Austria. Francia, Finlandia e Austria hanno ora perso la tripla A, ma la multipolarità del mondo attuale dà molto più peso ai fattori geopolitici. I rapporti tra Germania e Francia si stanno logorando non per questioni di valutazione del debito, ma perché entrambi i governi, e gli ambienti che contano, sono coscienti che la rottura della costruzione europea si sta avvicinando. Berlino e Parigi potevano collaborare, sia pure con rapporti di forza e interessi diversi, fintantoché rappresentavano una diarchia al comando dell’Unione come è ora. Nella costruzione di una nuova Unione, i contrapposti interessi della Francia e della Germania diventano più evidenti e rilevanti. Anche senza Parigi, Berlino uscirebbe con un seguito importante di Paesi, i già citati in precedenza più altri i cui interessi sono collegati, quando non dipendenti, da quelli tedeschi. Potrebbe essere, per esempio, il caso della Spagna e dei Paesi dell’Europa orientale.

Se lo scenario è quello descritto, non si può che concludere che la strategia seguita finora da Berlino è del tutto coerente e acquisterebbero maggiore significato le posizioni più volte assunte dai rappresentanti dei Paesi citati. I principali ostacoli al progetto nell’Ue, dopo la Brexit, rimarrebbero Francia e Italia. La Francia è tuttora abbastanza forte da poter assumere un ruolo da alleato esterno: ha un sistema Paese, malgrado tutto, ancora ben funzionante, ha una attiva politica estera ed estesi interessi geopolitici, specialmente in Africa, ha un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu.

L’Italia, invece, non è abbastanza forte per essere aggregata, ma è abbastanza forte da non poter essere facilmente esclusa, almeno fino a quando non la si è sufficientemente indebolita. E, nonostante una certa propensione a svendersi, non è facile “comprarsi” totalmente l’Italia, come avvenuto invece con la Grecia. Tra l’altro, addossando all’Italia parte dei costi dell’operazione, ma non degli utili.

Tornando all’intervista, per Starbatty un’Italia fuori dell’euro sarebbe un pericoloso concorrente per gli esportatori tedeschi, con gravi danni per l’economia della Germania; tanto più vero nell’attuale periodo di rallentamento del commercio mondiale. Ed ecco il “fieno in cascina”: il surplus accumulato verrebbe utilizzato per investimenti interni, sostenendo l’economia tedesca anche in presenza di una contrazione delle esportazioni. “Tout se tient” direbbero gli amici francesi.

Questa “Nuova Unione” intorno alla Germania avrebbe già le basi per una politica estera “non allineata”, per recuperare una definizione della Guerra Fredda. Si pensi al progetto Nord Stream, che renderebbe la Germania arbitra dell’importazione e distribuzione in Europa del gas russo, ponendo così in atto stretti interessi tra i due Paesi. O le intese con la Cina sulla Nuova Via della Seta.

Tutto ciò non significa necessariamente una rottura con gli Stati Uniti, non utile a nessuna delle due parti, al di là dei proclami ed entro un gestibile livello di conflitti. Un conflitto che potrebbe essere ridimensionato con le prossime elezioni presidenziali americane.

E l’Italia? Se non ci diamo rapidamente una mossa, non ci rimarrà che rispolverare, adattandolo, un detto dei tempi antichi: “Franza o Alemagna, pur che se magna”. Magari aspettando nel frattempo anche l’aiuto dello “zio d’America”. Sarebbe davvero molto triste.