Crescita zero come dice la Confindustria o crescita a zero virgola quattro per cento, come prevede la Banca d’Italia? Pochi decimali non fanno primavera e nel prossimo anno l’economia italiana sembra destinata a cadere nella palude maleodorante della stagnazione. Addio sviluppo impetuoso del 2021-2022, addio sorpasso della Germania e della Francia messe insieme. Non è la prima volta e forse non sarebbe nemmeno il rallentamento più grave, se non fosse perché è finita anche l’era della bassa inflazione e i prezzi, dopo l’impennata di questo secondo semestre, resteranno molto elevati.
L’inflazione è destinata a scendere verso il 4% secondo la maggior parte degli analisti. Sempre troppo, dice la Banca centrale europea che, nel tentativo di riportarla verso il 2%, stringe la vite, alza i tassi d’interesse base tornati sopra due punti percentuali la scorsa settimana e riduce la quantità di moneta in circolazione vendendo parte dei titoli pubblici e privati acquistati nel decennio del Quantitative easing. Così facendo, la Bce, sulle orme (sia pur in ritardo) della Fed americana, alimenta le spinte recessive. Non è solo una reazione automatica, è una scelta deliberata perché ritiene che solo raffreddando la domanda si potrà riportare i prezzi sotto controllo.
Questo è lo scenario con il quale si chiude il 2022. Il Governo, mentre è alle prese con una Legge di bilancio da approvare in meno di due settimane per evitare l’esercizio provvisorio, deve già pensare a come affrontare una congiuntura perversa in cui, per la prima volta dai famigerati anni ’70, inflazione e stagnazione marciano insieme e si alimentano a vicenda. La Legge di bilancio< come sappiamo è poco più che un nuovo decreto aiuti. Due terzi delle risorse sono destinati a compensare gli effetti del caro energia, un terzo a tutto il resto con l’aggravante che per i sostegni e gli aiuti c’è una copertura, mentre l’altro va finanziato in deficit, quindi andrà ad aumentare il debito pubblico che il rialzo dei tassi rende più caro. Il costo è già superiore a quello del debito greco o spagnolo. Il Governo, dunque, dovrà prendere decisioni difficili. Non potrà accontentare tutti, illusione che si è diffusa nell’anno dei bonus e dei sostegni in serie.
Il primo problema è individuare chiaramente chi sarà più colpito dalla stagflazione. L’aumento dei prezzi viene pagato in primo luogo dai ceti sociali deboli, dai risparmiatori e da chi ha un reddito fisso che non può seguire l’inflazione. I risparmiatori sono le vittime classiche delle fasi inflazionistiche, chi vuol tutelare il risparmio dunque non può non avere come priorità la lotta all’inflazione. Poi vengono salari e stipendi privi di qualsiasi scala mobile e con un potere contrattuale ridotto nel momento in cui il prodotto lordo non aumenta. La mancata crescita riduce i posti di lavoro e prosciuga le risorse per l’assistenza pubblica, dunque disoccupati e ceti che vivono di welfare soffriranno più di altri. A colpo d’occhio, non sono le categorie sociali al centro della Legge di bilancio.
Il Centro studi della Confindustria nella sua congiuntura flash di dicembre mette in rilievo che il cedimento principale riguarda l’industria. La produzione ha subito un secondo marcato calo in ottobre (-1,0%, dopo il -1,7% a settembre). Il quarto trimestre si è aperto con una variazione acquisita molto negativa (-1,5%), più pesante di quella del terzo (-0,5%) quando si è interrotta una forte espansione durata da ben sei trimestri. Ha tenuto invece il settore terziario, quello verso il quale si è diretta la maggior parte degli interventi previsti dalla Legge di bilancio. Il recupero estivo del turismo e della spesa per servizi (+3,1%) è stato cruciale per il settore, unico in crescita nel terzo trimestre (+0,9%). Per il quarto, i segnali sono in miglioramento: a novembre, segnala la Confindustria, la fiducia delle imprese di servizi ha recuperato un po’ di terreno, i volumi di veicoli sulle autostrade sono poco sotto i valori del 2019 (-0,2%).
Se così stanno le cose è evidente che la politica economica per il 2023 andrà rivista. Meno tasse sul lavoro emerge come l’esigenza numero uno per evitare che la crescita zero diventi negativa, ma anche che non crollino i consumi visto che i dipendenti rappresentano la quota principale degli occupati. Ci sono i margini per farlo? È possibile questa riconversione, anche dopo le stretta monetaria annunciata dalla Bce? Certo è più difficile, perché non è possibile scegliere tra lotta all’inflazione e lotta alla recessione; dunque bisogna essere in grado di muoversi su entrambi i fronti. L’Italia che ha pochi spazi da utilizzare nel bilancio pubblico, deve evitare che bassa crescita, alti tassi e rincaro del servizio del debito sollevino nuovi dubbi sulla solvibilità del Paese e riparta la micidiale giostra dello spread. I prossimi mesi saranno cruciali per capire se il peso dei gruppi di interesse e le divisioni nella maggioranza impediranno di seguire lo stretto sentiero tra disinflazione e crescita.
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